Talvolta, durante una lunga estate satura di caldo e di colori, può accadere di sognare un buio angolo di mondo coperto dalla neve e spazzato da un vento gelido; ma l’illusione dura pochi istanti e, pur grati del fantastico viaggio nel tempo e nello spazio, ci abbandoniamo di nuovo all’abbraccio del sole.
Dev’essere accaduto qualcosa di simile quando, nel nostro giro intorno al mondo del noir, è uscito fuori da un anfratto della libreria un libro d’altri tempi scritto da una dama d’altri tempi, la neozelandese Ngaio Marsh, morta nel 1982 a 87 anni di età, dopo aver dato alle stampe una trentina di romanzi gialli con protagonista l’ispettore capo di Scotland Yard Roderick Alleyn.
La scrittrice, in realtà, è di origini inglesi e vive gran parte dei suoi giorni in Gran Bretagna; prima di darsi al mystery coltiva l’amore per il teatro che non solo non l’abbandonerà nel corso degli anni, ma che le darà anche ottimi spunti per i suoi romanzi nonché la propensione a esaltare le sequenze dialogiche. Come accaduto a molti altri autori anglofoni, anche se nati nelle “province dell’impero”, la sua opera non può aspirare a creare un’autentica tradizione nazionale: non a caso il suo eroe si muove a Londra e classicamente “inglese” è la sua interpretazione del giallo internazionale.
Per nostra fortuna, invece, l’azione di Delitto d’annata si svolge in Nuova Zelanda, raggiunta dai nostri protagonisti attraverso un viaggio combinato di nave e treno che, già di per se stesso, evoca una stagione ormai trascorsa per sempre: Roderick Alleyn infatti si trova in vacanza ed è coinvolto nelle indagini su un omicidio, avvenuto in un teatro durante una tournée, prima come testimone e poi come detective.
Tutto si svolge secondo le regole consolidate del meccanismo a orologeria del giallo classico: piantina del teatro a inizio romanzo per dare al lettore la possibilità di seguire con successo gli ingegnosi movimenti dell’assassino; un folto gruppo di sospettabili, il cui carattere è delineato con pochi tocchi senza un particolare approfondimento psicologico, a eccezione, forse, della prima attrice Carolyn Dacres; alcuni investigatori locali, guidati dall’ispettore Wade, in dignitosa adorazione del genio dell’investigazione giunto casualmente da Londra; e infine lui, il detective Alleyn, che sfodera ferrea logica e notevole tatto da poter districare una matassa imbrogliatissima soprattutto a livello di spostamenti e di alibi.
In questo romanzo l’autrice sembra voler concentrare pregi e difetti dell’Epoca d’Oro del giallo: personaggi-marionette che si muovono esclusivamente in funzione dell’intreccio; indizi che affiorano laboriosamente dopo lunghe chiacchierate (e/o interrogatori); movimenti giocati sul filo dei secondi e verosimili solo all’interno del cerchio magico del romanzo stesso. Un gran bell’enigma, certo, ma freddo, appunto, come una nevosa e nordica giornata d’inverno.
Per fortuna di noi lettori di un altro secolo ci rallegrano alcune pagine (non molte in verità) che ci restituiscono il cielo smaltato della Nuova Zelanda, un’aria pura dai miasmi londinesi, monti, valli e ruscelli che sembrano appena usciti dalla verginità incorrotta dell’Eden; qualche debole cenno qua e là ai costumi degli orgogliosi maori e poi su tutto cade la pesante cortina del più classico “whodunit”.
Ecco allora, una volta riemersi dalla lettura, il senso di gratitudine per il viaggio in un pittoresco passato ormai defunto, ma anche quello di liberazione rispetto a un tipo di mystery che non riesce più a soddisfare i nostri palati diventati ormai forse troppo esigenti.
Così, incerti tra il rispetto della tradizione e l’insofferenza per l’inattualità della stessa, per una volta ci asteniamo dal nostro consueto voto e ci rifugiamo in un (letterale) “non classificabile”.
Voto: n.c.
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