È ben dentro un Medio-Oriente volutamente reso sfumato quanto a periodo storico e fazioni in lotta (nazionalisti cristiani contro…?) che Denis Villeneuve ambienta il suo La donna che canta – Incendies, adottando il registro più consono, quello del melodramma che sfocia nella tragedia come ogni melodramma che si rispetti.
Il tutto ha inizio con la morte di Nawal Marwan (Lubna Azabal), madre di due gemelli, Jeanne e Simon, che convocati dal curatore testamentario apprendono dell’esistenza di una padre ritenuto sino ad allora morto e di un fratello di cui ignoravano completamente l’esistenza. È il “pretesto” destinato ad innescare un viaggio parallelo, dentro una terra dilaniata dall’odio e un passato incandescente dove all’odio si aggiungerà lo scempio e allo scempio lo strazio.
Eppure, è l’apparente inattaccabile tenuta drammatica della storia che mostra qualche smagliatura, in primo luogo perché Villeneuve sembra volersi accontentare solo di quello che fuoriesce liberamente dalla storia (suo lo script d'altronde…) senza riuscire ad accompagnare il narrato con una regia all’altezza delle vicende, in secondo luogo perché il colpo di scena finale non sembra così inaspettato come ci aspetterebbe, incapace di andare fino in fondo, rischiando invece di andare a fondo (tutt’altra cosa quello abbagliante di Old Boy…).
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