Il colore del sangue

«Il sangue di un buon carabiniere ha lo stesso colore di quello di un cattivo carabiniere».

Me lo dicono sempre. Me lo hanno detto perfino ieri, come se non si stancassero mai di ricordarmi che sono figlio di mio padre. Io mi stanco, invece, perché me lo ricordano da troppo tempo e ogni volta aggiungono strato su strato alla voglia di essere diverso da lui. Mio padre.

Ce l’ho in testa anche nel momento in cui allungo una mano verso l’abat jour. L’accendo e stringo gli occhi solo per il breve istante in cui fa luce. Poi si fulmina lasciandomi definitivamente al buio, quasi a voler sottolineare che io, per far luce sulle cose, proprio non ci sono tagliato.

La sveglia segna le cinque meno un quarto di lunedì mattina. Un disastro, considerato che non ho ancora chiuso occhio, e che da lì a due ore devo abbandonare ogni speranza di dormire.

Decido di alzarmi. Sigaretta, doccia, caffè. Ristretto, bollente come le uova sode che mi sento al posto degli occhi. Esco di casa e guardo l’ora: l’alba. Ho tutto il tempo di familiarizzare con la luce del giorno.

Lucca è una di quelle città a cui non ti abitui mai. Nemmeno se ci vivi da sempre. Nemmeno se la pioggia e l’umidità la rendono grigia come tutte le altre. Rimane sempre qualcosa che ti stupisce, che ti fa pensare o che semplicemente ti fa alzare gli occhi verso l’alto tra le fronde dei pioppi che coronano la cinta muraria e diventano una seconda, insormontabile protezione. Quando sei all’interno delle mura e guardi il sole ti senti protetto perché sai che il male resta fuori. Quando invece abbassi gli occhi sulle carraie buie che odorano di vecchia umidità, hai la sensazione che resti dentro. E ti senti improvvisamente nudo.

Fuori porta San Pietro tiro quasi un sospiro di sollievo. A quell’ora di mattina presto, la città ha un aspetto lugubre e uscire dalle Mura è come tornare a respirare di nuovo.

Guardo il cielo: le nuvole scure si addensano sulle Apuane.  Forse non ci sarà nessun giorno a cui abituarsi. Meglio così. Perché la testa comincia a farmi male e il dolore aumenta con la luce.

Entro in caserma che mancano pochi minuti alle sei: il deserto. C’è solo il piantone di turno, che mi rivolge un saluto distratto. Per il resto nulla, nessun rumore, nessun segno di vita. Nemmeno l’odore del dopobarba del maresciallo Vigorelli, un miscuglio di tabacco, Acqua Velva e borotalco che di solito sembra impregnare perfino le pareti. Siedo alla scrivania, accendo il computer e faccio la solita “X” sul calendario: meno 32 giorni alle ferie, che sicuramente non ci saranno; il che vuol dire meno 32 sigarette, una al giorno come mi sono ripromesso, escluse le eccezioni, che invece ci saranno eccome.

Scarico la posta, butto un paio di post-it che non mi servono più e mi smangiucchio le unghie. Dopo cinque minuti non ho già più nulla da fare. È dura trovare qualcosa da fare in una caserma piccola come quella di Lucca, quando sono le sei del mattino.

Alle sette e cinque entra in ufficio la persona che più di altre ama ricordarmi chi era mio padre: Tendenza Carlo. In caserma lo chiamiamo Cassius da quella volta che un balordo gli spaccò il naso con un pugno.

Cassius mi guarda buttando il cappello sulla mia scrivania. «Nottataccia eh, Salvetti?».

«Non ho chiuso occhio», rispondo sbadigliando. Mi fingo affaccendato con il computer, tanto per non farmi trovare inattivo.

Cassius mi scruta. «Si vede. Come mai? Qualche preoccupazione?».

«Nessuna più del solito», rispondo evasivo. Non ho nessuna voglia di raccontare i fatti miei.

«Da quanto sei arrivato?».

«Un’ora, più o meno».

Cassius fa una smorfia di scherno che non mi piace. «Addirittura? Come mai arrivi sempre prima? Pensi che ti diano la medaglia?».

Io sollevo gli occhi dal monitor. Sono infastidito. «Mi fai il terzo grado, Cassius?».

Cassius tira su le mani. «Scusa tanto».

Mi alzo in piedi e controllo l’ordine di servizio. «Vieni, che stamattina siamo di pattuglia».

«Non ho ancora fatto colazione», protesta Cassius.

«Perché non la fai prima di entrare in servizio?», il tono che uso è di rimprovero.

Cassius mi guarda scocciato. «Senti, Vincenzo, non puoi giocare a fare il carabiniere modello solo perché tuo padre...», smette di parlare di colpo.

«Solo perché mio padre… cosa?», chiedo. La mia voce è dura.

Cassius lascia cadere il discorso. «Niente, niente. Fai finta che non abbia detto nulla».

Lo guardo. Non ho apprezzato e lui lo sa.

 

La Punto si ferma proprio davanti a Cassius, che tiene ancora la paletta alzata come uno scettro. Abbiamo approntato il posto di blocco lungo viale Europa, in uno spiazzo all’altezza dell’hotel Napoleon. Cassius si avvicina alla macchina e guarda dentro. Al volante c’è un ragazzo, capelli corti e neri, sguardo allampanato. Abbassa il finestrino lentamente e sorride appena.

«Salve», saluta Cassius. «Patente e libretto, per favore».

Il giovane, sui vent’anni, armeggia prima con il bauletto porta oggetti, poi con le tasche posteriori dei pantaloni. Consegna tutto nelle mani del carabiniere una frazione di secondo prima di farsi ripetere la richiesta. Cassius prende i documenti, va alla macchina e comincia a parlare alla radio.

Io osservo il ragazzo. Guarda dritto davanti a sé e tamburella sul volante. È pallido e la camicia sotto le ascelle è macchiata di sudore. È strano, perché non fa affatto caldo.

Ti senti bene? Vorrei chiedergli. Ma decido di star zitto e aspettare Cassius.

I suoi stivali schiacciano un po’ di pietrisco sull’asfalto vicino alle ruote dell’auto. «I documenti sono a posto», dice porgendoli al giovane attraverso il finestrino.

Lui li afferra e li butta sul sedile con un gesto rapido, come se avesse fretta. O paura. Fa per mettere in moto, ma Cassius posa una mano sullo sportello e si abbassa per guardarlo in faccia. «Ma forse non lo è lei».

«Io?». La voce gli trema.

«Sembra nervoso. C’è forse qualcosa che non va?».

Il ragazzo scuote la testa. «No, davvero».

«Sta poco bene?». Domando.

Cassius gira verso di me un’occhiata di rimprovero. Bravo, mettigli in bocca una bella scusa e poi credici anche tu.

Il ragazzo prende in bocca la risposta. «Sì, sto male. Mal di pancia».

Cassius, rigido sui tacchi. «Le spiace scendere un attimo?».

«Perché?».

«Scenda, per favore».

«Le ripeto che sto male…».

La mano di Cassius sbatte sul tettino della Punto. «Scenda!».

Il ragazzo mastica l’aria a vuoto. Serra le mascelle e le mani spariscono dal volante.

Vedo la scena come al rallentatore: Cassius che apre la portiera, il giovane che alza verso la sua faccia una pistola. Io che alzo d’istinto la mia contro qualcuno che per la prima volta non è una sagoma di legno ma una persona in carne ed ossa.

«Abbassa la pistola!», grido.

Il ragazzo mi guarda senza fare niente.

«Abbassala!».

Anche Cassius mi guarda. Per un attimo. Forse non ha mai visto la canna di una pistola così vicina. Ed io non ricordo di aver mai visto un’espressione come quella sulla sua faccia.

«Abbassa quella pistola, ti dico, o sparo!».

Niente.

Si prova una strana sensazione nel vedere la paura sul volto di un uomo come Cassius. Non è il comportamento che ci si aspetta da un carabiniere. Ma in fondo, perché stupirsi? Cassius non è mai stato un esempio. Non poteva esserlo: ha avuto mio padre come istruttore, e mio padre non è stato un esempio per nessuno. Tranne, forse, per me.

 

Anche quel giorno era di lunedì. Lunedì pomeriggio, me lo ricordo bene. Io ero appena uscito dalla prima settimana di servizio effettivo, e sentivo ancora addosso i residui dell’addestramento. Mio padre parlò prima ancora che mi togliessi la divisa, prima ancora che mi mettessi a sedere sul divano del salotto. Mi disse che il nostro non è un mestiere ma una specie di missione. Rischiamo la vita tutti i giorni e a volte ci tocca scegliere tra la vita e la morte. Lui aveva appena fatto quella scelta: aveva ammazzato un uomo, un padre di famiglia che aveva cercato di rapinare un ufficio postale armato di pistola. E disse che un giorno anch’io avrei dovuto scegliere, per cui era meglio che mi preparassi. Diceva che una decisione sbagliata può costare una vita, e che una decisione giusta ne può costare un’altra. Diceva che a volte non si può scegliere senza che qualcuno ci rimetta tutto. E spesso siamo noi a rimetterci. E quando non è la vita che ci giochiamo, è qualcosa che costa altrettanto, se non di più: la pace con noi stessi.

Mi raccontò che quell’uomo era disperato, pronto a tutto. Lui aveva cercato di farlo ragionare, ci aveva parlato a lungo. Ma quello, che si chiamava Giovanni Ruggero – me lo ricordo ancora come fosse ieri –, non aveva nessuna intenzione di arrendersi. Aveva preso un bambino, voleva duecento milioni di lire per pagare gli strozzini, diceva che lo Stato e le banche lo avevano rovinato perché era colpa loro se lui era stato costretto a rivolgersi a quella gente.

Mio padre non aveva mai ucciso nessuno durante la sua carriera. Forse non aveva mai nemmeno estratto la pistola dalla fondina. Da quel giorno entrò in guerra con se stesso. Era come se fosse diviso tra bene e male. Prima di chiudere con tutto scegliendo di spararsi in bocca con la sua pistola d’ordinanza, ricordo che si era ridotto in uno stato pietoso. Non sopportava più nemmeno la sua immagine riflessa. Era cambiato e la paura di dover puntare di nuovo la pistola su qualcuno non lo faceva dormire.

Dicevano che aveva chiuso un occhio su certe sigarette di contrabbando che transitavano da Viareggio verso l’alta Italia; dicevano che si era lasciato sedurre da una prostituta che aveva arrestato durante una retata. Dicevano che durante l’interrogatorio di un ragazzo segnalato da un cane antidroga durante un concerto, aveva perso le staffe. Il ragazzo non aveva voluto dire dove aveva la roba e mio padre lo aveva pestato a sangue per farlo parlare. Alla fine era venuto fuori che quel giovane era pulito. L’errore lo aveva commesso il cane, impazzito perché tutti a quel concerto fumavano qualcosa di diverso dal tabacco.

Era diventato ingiusto, mio padre. «Basta esserlo una volta per esserlo per sempre», aveva detto in una delle tante occasioni in cui gli avevo fatto notare come stavano le cose. E lo aveva detto senza emozioni. Io più di una volta mi ero trovato sul punto di dire che non era stato ingiusto, che aveva sparato per salvare delle persone. Poi mi ero morso la lingua perché sapevo che non era ciò che pensavo. Avrei voluto poterlo consolare, ma non riuscivo a condividere la sua scelta. Forse perché non mi ci ero trovato di persona, come lui mi faceva notare. «Può darsi», rispondevo io, ma la pensavo a modo mio e mentire non sarebbe comunque servito a niente.

Sapevo com’erano andate le cose, quel lunedì nero che aveva cambiato per sempre la vita di mio padre. Sparò in mezzo alla gente, rischiando di colpire il bambino che Ruggero teneva in ostaggio o qualcun altro all’interno dell’ufficio postale. Sparò e Ruggero morì sul colpo. Solo dopo mio padre si accorse che la sua pistola era un giocattolo. Uno stupido giocattolo, di quelli che si compravano per dodicimila lire al mercato dei Bacchettoni, sotto le mura. Uccise per nulla. «Potevi sparargli a una gamba. Oppure potevi aspettare, trattare ancora», gli dissi. «C’era margine…».

Margine: lo spazio che divide bene e male. Uno spazio troppo stretto per toccare da una sola parte.

Il ragazzo sulla macchina tiene la pistola puntata contro la faccia di Cassius e Cassius tiene gli occhi su di me con un’espressione che dice: “Che aspetti? Sparagli!”.

Ma io non sparo. La mia pistola taglia l’aria davanti a me ma non riesco a premere il grilletto. Mio padre dentro la mia testa continua a raccontare la storia di Ruggero e io non riesco a sparare.

Cassius dice al ragazzo di stare calmo, di non peggiorare le cose. Le sue parole sono quasi una supplica. Qualunque sia il motivo per cui ci troviamo in quella situazione, può essere risolto senza spargere sangue. Se ci scappa un morto o un ferito, no. Non c’e soluzione.

Ma il giovane resta immobile con la pistola puntata. «Lasciatemi andare».

Cassius alza le mani e arretra di un passo. «Va bene, vai. Vai!».

«No», dico io, duro. E mi stupisco delle mie parole. «Lascia la pistola e scendi dall’auto». 

«Lasciami andare o gli sparo», grida il ragazzo allungando la pistola verso Cassius.

«Se gli spari non risolvi niente. Perché io sparo a te subito dopo e, se non ti ammazzo all’istante, ti rendo storpio per tutta la vita. E in galera ci finisci anche se sei storpio. Ne vale davvero la pena?». Sputo fuori tutto d’un fiato e il ragazzo sembra sorpreso.

«Non peggiorare la situazione», insisto cercando di approfittare dello stupore momentaneo. «Metti via la pistola e scendi lentamente. Vedrai che nessuno si farà male. Non costringermi a sparare».

«Dagli retta», aggiunge Cassius. «Fa sul serio».

Vedo la canna della pistola del ragazzo che comincia a tremare. Anche la sua bocca comincia a tremare. Nel suo sguardo c’è qualcosa che non va, una luce opaca, offuscata da qualcosa che avevo già visto nello sguardo di mio padre.

Ma lo capisco solo quando sento lo sparo.

Cassius grida e fa una strana piroetta. Grido anch’io. Poi corro verso Cassius.

«Chiama il centodiciotto», gli ordino. «E la Centrale».

Alcune auto rallentano lungo la strada, la gente si riversa fuori dal Napoleon e dai bar e sento Cassius gridare. «Forza, andate via, non c’è niente da vedere!».

Il ragazzo sulla Punto è ancora vivo, anche se capisco che ne ha per poco. Respira a fatica e si tiene una mano sul collo. Il colpo lo ha raggiunto alla giugulare e sta perdendo molto sangue. Allungo gli occhi nell’abitacolo. La sua pistola è finita sul tappetino davanti al sedile del passeggero. Lui mi guarda senza parlare. Cerca solo di respirare.

«Perché?», gli domando.

Lui muove la bocca. Mi sembra di percepire un «mi dispiace», ma non ne sono sicuro.

Le ambulanze arrivano quasi subito e io mi allontano perché i volontari e i medici possano fare il loro lavoro. Un istante dopo arrivano le gazzelle a sirene spiegate.

Il maresciallo Vigorelli scende dalla macchina e si guarda attorno stupito.

«Salvetti, sta bene?», è la prima cosa che mi chiede.

Io non rispondo subito. Prendo un paio di guanti di lattice, torno alla Punto, apro la portiera dal lato passeggero e raccolgo la pistola del ragazzo. È pesante, una Smith & Wesson calibro trentacinque. Come quella di mio padre. La canna è ancora calda.

«Sì», dico annuendo.

 

Il ragazzo è morto poco dopo, sopra duecento grammi di cocaina nascosti sotto il sedile della sua macchina. Lui non aveva precedenti di alcun tipo, era un ragazzo normale, come tanti. Difficile stabilire cosa lo avesse spinto a diventare un corriere della droga, un “mulo”, come dicono gli addetti ai lavori. Forse gli stessi motivi per cui Giovanni Ruggero aveva cercato di rapinare quell’ufficio postale tanti anni prima mettendo in gioco perfino la sua stessa vita: disperazione, bisogno di soldi e bisogno subito.

È inutile mettersi adesso a dire che è un mondo ingiusto quello in cui viviamo, sarebbe un luogo comune troppo comodo da tirar fuori. Di certo non è un mondo facile. Per nessuno. Nemmeno per chi sta da questa parte e prima o poi è chiamato a decidere. A qualcuno tocca il primo giorno di servizio. A qualcuno l’ultimo. A volte è qualcun altro a scegliere per noi. Ma prima o poi il momento di far vedere il sangue arriva. Che sia il proprio o quello degli altri, che sia quello di un buono o di un cattivo. E quello che accomuna il sangue di tutti, buoni o cattivi, è il colore.