Il picciotto omaggio

Alex, seduto su una cassetta della frutta, fumava e intanto aspettava le prostitute.

Il camion che doveva scaricarle stava per arrivare.

Sasà Di Stefano, come si faceva chiamare da quando era tornato in Sicilia, era un mafioso che incuteva timore e rispetto. Rispetto che non si era meritato spaccando la testa alla gente con le mazze da baseball o rinforzando i pilastri autostradali ficcandoci dentro i cadaveri dei traditori. Per carità, tutte queste cose, e anche di peggio, le avrebbe sapute fare, le basi elementari non gli mancavano. E all’occorrenza non si sarebbe tirato indietro su nulla. Poteva rapire, sequestrare, torturare, uccidere e applicarsi con obbediente diligenza su ogni declinazione dell’ABC del manuale del picciotto modello.

Ma al di là di queste apprezzabili attitudini, il carisma di Sasà derivava principalmente dal fatto di corrispondere ben poco alla figura del mafioso tradizionale che, per quanto la mafia cercasse lodevolmente di adeguare la propria immagine ai tempi correnti, rimaneva sempre il siciliano sospettoso, mezzo autistico, con la coppola e la lupara.

Lui, invece, era diverso. Nato in Sicilia, era cresciuto e vissuto negli Stati Uniti, spedito lì dai genitori, la madre soprattutto, che aveva voluto che studiasse e si laureasse, ospitato ed accudito da una potente famiglia di parenti mafiosi, proprietari dei sexy shop di mezza costa. Era alto, con la bellezza normanna di sua madre. Portava sempre jeans, clarks e maglioni sformati, e somigliava molto più ad uno svagato Ellery Queen che a un tarchiato Vito Corleone.

E in America lui ci sarebbe rimasto, dedito ai suoi redditizi ed equivoci affari, se un giorno un magistrato, ostinato e grintoso, non gli avesse sbattuto all’Ucciardone padre e fratello. L’accusa, la solita, era di associazione a delinquere di stampo mafioso, corredata da una sfilza di omicidi aggravati da crudeltà così fantasiosamente efferate che sarebbero bastate a tenerli dentro per tre ere geologiche.

E questo ci poteva pure stare. Se fai l’impiegato alle poste magari non ti capita, ma se di mestiere fai il mafioso e nella vita vai in giro a coprire di calce viva i tuoi nemici, quando ancora non sono cadaveri, qualche nottata in prigione la metti in conto. Il vecchio boss Di Stefano, però, da quel carcere era uscito presto, pochi mesi dopo addirittura, ma con i piedi in avanti. Quel soggiorno obbligato gli era stato fatale. Non perché venisse maltrattato o mezzo affogato in un lavatoio pieno d’acqua o torturato coi mozziconi di sigaretta. Queste cose avvenivano in America, ma non certo in Italia e men che meno all’Ucciardone. Il 41-bis, per quanto seccante per i mafiosi, non era Guantanamo.

A ucciderlo, un giorno di novembre di dieci anni prima, non era stato nemmeno l’essere rinchiuso in quello sputo di cella, costretto a rinunciare a dare ordini, a mangiare il vitto del governo, a telefonare, dormire e andare al gabinetto quando gli dava il permesso qualcun altro. No. Il cuore gli era schiattato quando gli avevano detto che suo figlio, non quello americano, l’altro, il mafioso vero, quello nella cella vicino alla sua, il primogenito carne della sua carne, era diventato un collaboratore di giustizia. Questa era la peggiore, proprio la peggiore delle cose che un padre come il loro si meritava di sentire. Cosa Nostra non si lascia. Meglio morto, meglio fatto a pezzi, meglio sciolto nell’acido come un dado da brodo, meglio pure ricchiune, aveva avuto il tempo di mormorare il vecchio, con l’affanno e la mano sul petto, ma un pentito no! Questo proprio non lo poteva sopportare. Meglio la morte.

E così Alex, in quella famiglia dalla quale se n’era andato bambino, era tornato per fare l’uomo. L’unico rimasto della sua famiglia, in realtà, visto che uno era morto e l’altro, suo fratello, “uomo” davvero non lo si poteva più chiamare.

Anche il nome si era cambiato. Quell’Alex era insostenibile per i padrini più anziani dai quali era andato a farsi conoscere e a cercare aiuto... «Ma cu minchia di nome è stu Alecs?», mormoravano perplessi. E allora era diventato Sasà, un nome da gay, da gagà, per quanto lo riguardava, ma tant’è… Era il prezzo da pagare per il suo ingresso in società. 

E con la protezione di Cosa Nostra, Don Sasà, al secolo Alex Di Stefano, si era vendicato di quel Dio-lo-fulmini di magistrato. Lo stesso che prima aveva incarcerato suo padre e poi aveva convinto quello smidollato di suo fratello a diventare un infame pentito. Anzi, la vendetta aveva superato in velocità addirittura gli invocati fulmini di Dio. Al cocciuto magistrato, infatti, che tanto ci teneva a stare azzeccato a suo padre quand’era vivo, Sasà aveva voluto fare un piacere. Non era passato un anno dal funerale, che la macchina con dentro lui e quattro carabinieri della scorta era saltata in aria in un cupo pomeriggio d’autunno. Ora finalmente il magistrato Lorusso avrebbe potuto continuare ad interrogare suo padre per tutta l’eternità, senza interferenze né distrazioni.

E per i quattro della scorta, Amen! Mica facevano i bancari o i bidelli o gli organisti in chiesa! Se sei un carabiniere del servizio scorte, lo metti in conto. È facile che da morto ti debbano rimettere insieme in una scatola come un puzzle da cento pezzi.

I nomi di quei quattro disgraziati, poi, non se li ricordava proprio. Anzi, probabilmente non li aveva mai saputi e neanche gliene importava nulla. D’altra parte, perché avrebbe dovuto saperli lui, se pure per la televisione, per i giornali, persino per i vescovi che si materializzavano apposta per certi funerali, questi morti erano sempre «gli uomini della scorta», neanche fossero ombre senza nome o identità? Il Presidente Moro e gli uomini della scorta, il generale Dalla Chiesa e gli uomini della scorta, il giudice Falcone e gli uomini della scorta…, la solita cantilena.

Strano mondo! Quello in cui, finita la retorica inutile dei discorsi solenni, appassiti i fiori, cambiato canale perché sennò la cena va di traverso, restano solo le madri, le vedove e gli orfani a piangere i morti chiamandoli con il loro nome.

Ai funerali, ai quali per una specie di nevrosi si recava sempre e in incognito, Sasà aveva notato delle donne in nero, senza più lacrime, e degli orfani ragazzini, che gli avevano ricordato casa sua, in America. Quell’America che, dopo più di quarant’anni, era ancora ossessionata dall’assassinio del suo Presidente e con ogni scusa ne ritrasmetteva continuamente in televisione le immagini. Quelle sequenze scioccanti della first lady che, persino mentre arrancava carponi sull’automobile verso il marito morente, conservava intatta la sua innata classe e di quel bambinetto in giacca scura che salutava militarmente la bara del padre, avevano turbato il mondo.

Ricordi a parte, ora una nuova spina tormentava le giornate di Sasà.

Morto, sia pure con un aiuto, un rompiscatole, ecco che ne sbuca fuori un altro. E infatti un capitano dei carabinieri, un certo Aspesi, ennesimo sbirro ostinato, si era messo alle sue costole con l’obiettivo di sbatterlo dentro a vita.

Anche a questo problema Sasà aveva già trovato una soluzione.  E pure stavolta era definitiva.

Mentre era assorto nelle sue sinistre riflessioni, avvertì il rumore di un motore che si avvicinava. Un Fiorino celeste si era fermato a pochi metri dal capannone, in quello spiazzo deserto e desolato della campagna agrigentina. Era mezzo ammaccato e tappezzato di adesivi di una fantomatica società “Traslochi Facili di Mazzarelli Sauro”, corredata di un altrettanto inesistente numero di cellullare. E come i traslochi di Mazzarelli Sauro, anche quell’affare finora era stato facile. Non ci aveva messo molto, infatti, a convincere Don Ciccio Ingranata ad unirsi a lui in quel commercio che aveva fatto in modo apparisse vantaggioso per tutti.

«Un’idea geniale, un marchingegno semplice e perfetto, che trasformerà lo spaccio di eroina in una sinecura», aveva detto Sasà. «Tu mi dai le tue prostitute, io le piazzo sulle strade giuste a spacciare la droga e poi smezziamo il guadagno».

Il resto, la parte più segreta del suo piano non l’aveva condivisa con nessuno. Era una questione fra lui, il capitano Aspesi e la sua dannata banda di carabinieri.

Alzò gli occhi verso la collina. In lontananza c’era un altro furgone con degli uomini in tuta blu che scaricavano cassette di frutta. Uno era rimasto sopra e dava disposizioni agli altri. Non ci badò. Distolse lo sguardo e quel veicolo lontano svanì dalla sua mente. L’unico furgone che gli interessava era il suo. Le donne, intanto, erano tutte scese.

 

***

 

Unità Mobile a Centrale Operativa. Unità Mobile a Centrale Operativa. Siamo sulla collina, a bordo del furgone. L’incontro è avvenuto. Sono scesi sette soggetti. Cinque donne e due uomini. Continuiamo a tenerli d’occhio. Attendete il prossimo collegamento. Passo e chiudo.

Una portiera si chiuse piano in lontananza e l’uomo in tuta blu si risedette al posto di guida. Sasà, lontano e perso nei suoi pensieri, di tutto questo non si accorse nemmeno.

 

* * *

 

Le prostitute erano cinque. Ad occhio, tre nigeriane e due dell’Est. Giovani, anzi giovanissime. Specie le nere, un po’ meno le altre. Sasà, in ogni caso, non le avrebbe toccate manco con un dito. In questo era decisamente più americano che siciliano. Era sempre stato abituato ad andare a letto con chi gli pareva, anche per una sola notte, senza complicazioni e avvilenti traffici di denaro. E quel commercio non suscitava in lui nulla di eccitante. Se avesse potuto, avrebbe spacciato droga usando i cavalli, invece delle prostitute. Erano animali decisamente più belli e creavano molti meno problemi. Niente permessi di soggiorno, niente liti, niente malattie. Dormivano in piedi, mangiavano fieno e gli bastavano qualche zolletta di zucchero e una carezza sul muso per essere miti e riconoscenti. “Certo, fra i cavalli e le donnacce non c’è proprio paragone”, pensò con una vena di rammarico.

Le tre nigeriane, tuttavia, con quei fondoschiena enormi, ai cavalli gli assomigliavano pure, se non fosse che i cavalli, in genere, hanno il buon senso di non indossare pantaloncini di lycra verde su magliette fucsia tese allo spasimo su seni sesta misura. I capelli erano raccolti in mille treccine complicate e le unghie erano smaltate del rosso bordò smozzicato, usato di solito dalle nere, che a Sasà faceva un ribrezzo indicibile. Chiacchieravano fra loro in una lingua incomprensibile e ridacchiavano stupidamente guardandolo di sottecchi. Le due dell’Est, o che almeno sembravano tali, erano del solito biondo slavato e reso stopposo da troppe tinture casalinghe. “Deprimenti pure queste”, rimuginava Sasà, osservando gli orecchini d’oro da quattro soldi col pendentino, gli occhi azzurri e sfuggenti e il mento a punta.

Quanto gli mancavano le miss e le cheerleaders della sua patria adottiva, che sprizzavano salute, benessere e un’esuberanza, anche sessuale, che ti apriva il cuore! Queste due, invece, con le minigonne di jeans e gli stivaloni alti di plastica bianca, lo intristivano solo a guardarle. Una delle due, poi, che si era rivolta all’altra forse in albanese, sembrava una mezza tossicomane. “Un motivo in più per tenersi a distanza”, pensò Sasà ancora più stomacato.

Le ragazze, abituate com’erano a pagare una tassa in natura ad ogni nuovo protettore, che le spostava come pedine da un marciapiede all’altro, sembravano sorprese e insieme sollevate dall’evidente disgusto che quel magnaccia così diverso dai soliti manifestava nei loro confronti.

“Penseranno pure che sono dell’altra sponda”, concluse Sasà, ma meglio così, almeno mi staranno alla larga.

Si allontanò da quelle squallide derelitte e concentrò la sua attenzione sui due uomini. Il primo, tarchiato e col basco calcato in testa, lo aveva conosciuto tempo prima. L’altro, invece, non lo aveva mai visto.

«Buongiorno, Don Sasà», esordì l’uomo più anziano. «State bene? Mi fa piacere. Vi presento Antonio. Totò lo potete chiamare, se preferite. È un picciotto omaggio…, diciamo così. Ve lo manda Don Ciccio Ingranata, per aiutarvi con la zona e con le donne. Sta con noi da un po’, ma ve lo cediamo volentieri. L’abbiamo preso per fare un favore a un amico di un amico, uno che sta in galera e che c’aveva ’sto nipote senz’arte né parte che non si sapeva bene che fargli fare. Non è tanto svelto di cervello, ma conosce bene la zona e parla un po’ di ’sta lingua arcana delle ragazze. Vedrete che vi tornerà comodo. Allora siamo d’accordo: noi vi diamo le ragazze e voi le usate per piazzare la roba fra i clienti. Dalla famiglia Ingranata fatti di droga non se ne sono sentiti mai, e voi con le prostitute non ci avete avuto a che fare in nessuna occasione. Quindi non daremo nell’occhio. E poi Totò, pure se pare un po’ scemo, una mano ve la può dare. Sul serio», concluse l’uomo tirando una potente manata sulla spalla di Totò, che scemo pareva veramente, e che per la sorpresa barcollò in avanti e per poco non finì faccia a terra.

“Andiamo bene…”, pensò Sasà, “sai che aiuto! Un favore grosso gli hanno fatto all’amico in galera, a pigliarselo. Picciotto omaggio!…Un intronato da niente e alla fine a me è toccato”.

«D’accordo», disse comunque stringendo la mano all’uomo tarchiato. «Lo sapete che di voi mi fido. L’affare è sicuro. Io piazzo le ragazze lungo la provinciale nei posti che abbiamo concordato insieme. I miei clienti, chiamiamoli così, sanno in quali ore devono passare e per quali strade. Si caricano la ragazza in macchina e ritirano il pacco. Poi, per non dare nell’occhio, si fanno un giro nei paraggi, fanno pure all’amore, se vogliono, poi la lasciano dove l’hanno trovata e arrivederci e grazie. Lo scambio è fatto. La zona è la vostra, la polizia lo sa e chiude un occhio, controlli non ne farà. Alla droga non ci sta proprio a pensare. La sera, quando finiscono, le riporto al capannone dove le metto a dormire, anzi meno male che ci sarà Totò, che mi aiuterà a sorvegliarle….», continuò Sasà, rivolgendo un lungo sguardo dubbioso al nuovo aiutante che nel frattempo pareva mezzo appisolato. «Il compenso per la famiglia Ingranata lo abbiamo già discusso e non avrete di che pentirvi. I miei omaggi a Don Ciccio. Arrivederci».

«Riverisco. Arrivederci a voi, Don Sasà. È un onore trattare con voi. Vostro padre ne sarebbe fiero».

Il furgoncino si allontanò sgommando.

Sasà ripensava al suo piano. Don Ciccio non aveva capito niente. A lui il traffico di droga non era mai interessato. Figuriamoci poi se si metteva sul serio a spacciare in quelle strade polverose, servendosi di quelle cinque disgraziate e di quel mezzo scemo che gli avevano appioppato. Li osservò perplesso: una deprimente Armata Brancaleone. Gli affari di Sasà, poi, seppur di «accentuato stampo mafioso», come li aveva definiti quel maledetto che gli stava alle costole, erano di tutt’altro genere. Spostava capitali da un conto estero ad un altro, tramite uomini esperti capaci di manipolare persone e scelte, e di garantirgli una presenza influente e anonima in diverse compagnie di rilievo internazionale. La cosiddetta “faccia pulita della mafia”: quella era la sua vita in America. E quello che stava per fare ora era solo un’eliminazione a scopo cautelativo.

«Allora, Totò», iniziò rivolgendosi al nuovo aiutante, «sei dei nostri, dunque».

«Certamente, Don Sasà, spiegatemi cosa debbo fare».

Sasà lo guardò. Era giovane, sui venticinque, forse. Indossava dei pantaloni sformati e i capelli trascurati sfioravano il collo di una camicia consunta. Le unghie delle mani erano corte e sporche, con al mignolo della sinistra una specie di orrendo anello d’oro da vescovo. Fisicamente sembrava abbastanza in forma: gambe robuste, alto, bei bicipiti. Forse, anzi sicuramente, lo sfruttavano per qualche lavoraccio di fatica. L’espressione, invece, era irrecuperabile, con la faccia da scemo accentuata da una corta frangia che gli tagliava la fronte a metà.

Sasà esitò, poi, deridendo se stesso per aver temuto anche solo per un attimo di rivelare le sue vere intenzioni a quel demente, ricominciò a riepilogare ad alta voce il suo vero piano.

Quello che Don Ciccio non doveva in alcun modo conoscere.

«Siediti, Totò, che fai lì in piedi, impalato?».

«Se permettete, Don Sasà, sto bene così. Quel viaggio in furgone mi ha fatto il sedere quadrato. Resto in piedi».

Sasà aveva abbassato la guardia. Sapeva che il suo piano poteva avere dei punti deboli, ma era ben lontano dal pensare di averceli davanti proprio in quel momento. E così non si accorse, e non avrebbe neanche potuto, che da un piccolo apparecchio del tutto simile ad un telefonino, infilato nella tasca posteriore dei pantaloni di Totò, una vibrazione impercettibile stava segnalando l’inizio di una trasmissione.

*** 

Incoming transmission… Incoming transmission…

La scritta azzurra e lampeggiante scorreva sul video buio e un uomo con gli auricolari e l’espressione preoccupata si predispose all’ascolto

Centrale Operativa a Comando. Siete in ascolto? Trasmissione in arrivo. Passo.

Comando a Centrale. Ricevuto. Siamo in ascolto.

«Io ti racconto queste cose, Totò, perché di te mi fido. Mi voglio fidare. Mi sei stato presentato da un uomo d’onore e questo mi basta. E poi tu la conosci la consegna del silenzio, vero? Sai che succede a chi parla troppo. Ora, devi sapere che c’è una cosa che a me nessuno mai mi deve fare. Ed è interferire con i miei affari. Invece, qui in Sicilia c’è un certo capitano dei Carabineri, Aspesi si chiama, che si è fissato di trovare un motivo per sbattermi in galera a vita. Come accadde a mio padre. È questo che vuole? Benissimo. E io allora voglio che lui venga qui a prendermi. Lo aspetto. Questa storia delle prostitute e della droga è un’idea per portarlo da me. Arriverà qui nel capannone, in questo spiazzo deserto, sapendo che io non ci sarò e che qui troverà tutto quello che cerca: le prostitute, la droga e le prove con cui mettermi dentro. Tu sarai qui ad aspettarlo con gli altri picciotti. Quelli di Masino.

I carabinieri verranno in pochi. Non si aspettano di trovare nessuno, prostitute a parte. Li potete ammazzare tutti. Tranne lui. Lui lasciatelo a me. Se tutto fila come deve filare, mi chiamate, io arrivo e ci faccio due chiacchiere. Le ultime della sua maledettissima vita. Hai capito tutto, Totò?».

«Un piano che solo voi potevate escogitare, Don Sasà, ma perdonatemi. Se quello viene qua e trova le prove, per voi è finita. Alla fine, prima o poi vi arresta…».

«Madonna mia che favore gli ho fatto a Don Ciccio, con te…! Sei proprio ritardato. Alla fine quando? Dopo che avrà trovato le prove, non andrà da nessuna parte, perché io vengo qui e lo ammazzo. Oppure lo torturo e lo ammazzo! Oppure gli cavo gli occhi e poi lo brucio! O gli sparo negli attributi e glieli metto in bocca! Lo hai capito, Totò? Hai capito ora?».

«C… certo, Don Ss…sasà, ce… certo, ho… ho capito. Ma come fate a farcelo venire, qui al capannone? Tutta questa storia delle prostitute sulle strade, con la droga, è una cosa segreta… Chi glielo dice a questo capitano Aspicchi?».

«Aspesi! Aspesi! Quale Aspicchi, deficiente! A te ti ci faccio, a spicchi! Comunque ci arriva perché glielo dirò io. Su queste strade cominceranno a circolare clienti. Circolerà pure qualche mio amico, che farà arrivare in galera a qualche infame, tipo mio fratello, le notizie che io voglio. E il fatto che Don Sasà ha un quartier generale segreto al capannone, per smerciarci droga con le prostitute, arriverà al finissimo orecchio del capitano Aspesi in cambio di qualche umiliante sconto di pena. E siccome, per fortuna, all’Ucciardone ho ancora parecchi amici, riuscirò a sapere il giorno esatto della visita del mio amico. E sarò qui ad aspettarlo».

«Che astuzia, Don Sasà! Non vedo l’ora! Con me ci sarà Masino Marchese con i picciotti, vero?».

«Bravo, Totò. Meno male che almeno qualcosa la capisci. Ma raccontami un po’ qualcosa di te. Com’è che sei diventato picciotto? Ti piace Cosa Nostra? La  nostra Grande Famiglia?».

«È cosa vecchia, Don Sasà. Vi spiego: è per mio padre. L’avete sentito mai quello che dicono ai cortei quelli che si vogliono fare coraggio? Com’è che dicono? Ah sì, ecco! Le loro idee cammineranno sulle nostre gambe. Le idee di quei due…, i giudici saltati per aria, quelli che hanno fatto più danni alla mafia di chiunque altro? Ve li ricordate? Ecco, è a loro che mi sono ispirato. Solo che io le gambe le voglio spezzare. Mio padre è stato ammazzato e io voglio spezzare le gambe, le idee e tutto il resto a  quelli che lo hanno fatto!».

«Bravo, Totò! Questo è parlare da uomo d’onore. E quand’è morto tuo padre, Totò? Era uomo d’onore pure lui, scommetto».

«Di grandissimo onore, Don Sasà. È stato fedele al suo capo fino all’ultimo. Fino al sacrificio estremo. E infatti insieme a lui si è sacrificato. Io avevo quindici anni. Non me lo posso scordare».

«Mi dispiace, Totò. Ma dimmi una cosa. Tu lo sai chi è questo? No, non è il nome che voglio sapere, ma un’altra cosa: lo hai mai visto? La conosci tu la faccia di questo grandissimo infame?».

«La conosco sì, Don Sasà. Anzi, voi non ci crederete, ma in certi momenti, anche adesso per esempio, io quella faccia… è come se ce l’avessi davanti!».

«Ti capisco, Totò e fai bene a vendicarti. Ti auguro con tutto il cuore di trovarlo, di staccargli i gioielli di famiglia e di servirglieli su un cono gelato!».

«Grazie, Don Sasà. Me ne ricorderò. Me ne ricorderò senz’altro. Meno male che vi ho trovato, Don Sasà!».

***

 

Il capitano Aspesi si tolse le cuffie dell’auricolare e le lasciò lì a penzolare tristemente sul collo.

«Non mi perdonerò mai per essermi lasciato convincere a dare l’autorizzazione a questa follia. Mettere un ragazzo di neanche venticinque anni sotto copertura, fianco a fianco di un mafioso assassino come Sasà Di Stefano è una pazzia bella e buona», sospirò frustrato rivolgendosi al collega seduto accanto a lui nel furgone.

«Permettetemi, capitano. Innanzitutto è una vita che stiamo cercando di incastrare Di Stefano e voi più di chiunque altro…».

«Sì lo so, lo so, è vero! Ma non a costo di seminare altri morti in operazioni scriteriate come questa», sbottò l’altro interrompendolo.

«Fatemi finire, almeno… Di fatto la vostra autorizzazione, con tutto il rispetto, non serviva granché visto che poi alla fine a decidere è stato il capo dell’Antimafia. E voi sapete quanto me che non è un pazzo che gioca con la vita delle persone. Magari con la sua, ma non con quella degli altri. E poi, capitano, lo sapete anche voi che qui c’e di mezzo un’ossessione. Padri ammazzati e figli adolescenti che aspettano solo di diventare grandi per ottenere giustizia. E anzi, almeno loro la giustizia la stanno ricercando pur sempre all’interno dello Stato. In quanti giustizia se la sono fatta da soli e noi, pur comprendendoli in cuor nostro, abbiamo dovuto arrestarli? Sapevamo che quella che cercavano era solo giustizia, ma abbiamo dovuto chiamarla vendetta. Queste sono ferite che non saranno alleviate, e dico alleviate, non guarite, in nessun altro modo. Avete fatto bene a lasciarli fare, capitano. Lo prenderemo».

«Lo spero, perché vedi… io per esempio, come tanti altri, figli non ne ho avuti mai. Un po’ sarà stato il caso, un po’ la vita, ma in fondo al cuore ho sempre covato questa paura di lasciarli orfani, saltando in aria, una sera qualsiasi, mentre scendo a buttare la spazzatura. Ed io, proprio per questo, non me la sento di andare a suonare alla porta delle madri per dirgli, col cappello in mano, che i loro figli, a me affidati, sono morti, ammazzati come cani dallo stesso macellaio che le ha rese vedove dieci anni prima. Io non ce la faccio proprio. Non più. Non questa volta».

«Capitano, anche io ho paura. Quei ragazzi li ho nel cuore anche io. Come voi. Ma non si poteva fare altrimenti. E poi, capitano, lassù qualche amico ce l’abbiamo, no? Anzi, purtroppo ne abbiamo parecchi. Con i loro nomi ci abbiamo intitolato le strade di mezza Italia. Vedrete che ce ne sarà qualcuno che guarda giù e che a questi ragazzi una mano in testa ce la tiene. Abbiate fiducia, capitano».

 

* * *

 

Erano passate due settimane e tutto stava filando liscio.

Una nuova vibrazione segnalava l’inizio del collegamento e Totò, sfiorandosi la tasca, si augurò con ansia che fosse chiara e che tutto funzionasse come doveva. Oramai erano arrivati alla fine.

«Dunque, Totò, a conti fatti mi pare che le cose stiano andando bene. La trappola del traffico di droga procede come previsto. Senza intoppi di nessun genere. Io nel frattempo le mie voci le ho fatte girare e l’uccellino sta per cadere nella rete. Prima, però, ti volevo dire che sei stato bravo e, se te ne piace qualcuna, di queste ragazze, te la puoi pure prendere. A me, personalmente, mi fanno schifo tutte. Specie quella là. La numero cinque. Cioè, sono io che le ho numerate così. Sai, un’abitudine presa coi cavalli… Mi pare mezza drogata. Ma di dov’è? Tu lo sai, Totò? Tu che ci parli, con le prostitute».

«Sì, è albanese, Don Sasà, ma un po’ di italiano lo parla. Ehi, Pranvera, vieni un po’ qui», gridò Totò rivolto alla ragazza. Quella si avvicinò tenendo lo sguardo a terra.

Sasà notò che era ben fatta, con un corpo attraente che stonava con quell’aria volgare e trasandata. I capelli legati erano biondastri e la maglietta le copriva una corta gonna di jeans. Soliti stivali di vernice con la zeppa stile marciapiede e unghie smozzicate. Niente di nuovo. Tutte uguali, le donne di vita.

«Com’è che ti chiami?», la apostrofò Sasà appoggiato ad un albero. «…Pranvera? Che razza di nome! I clienti mica se lo ricordano. Vabbè che non è il nome che si devono ricordare… E che vorrebbe dire? Ci sta in italiano?».

«Sì che ce sta. È como dire vostra Pramavera. Quando fa buono tempo dopo che tanto pioggia».

«Ma che dice questa, Totò? Il meteorologo fa, o la prostituta?».

«No, Don Sasà, vi ha capito. Dice che il nome suo vuol dire Primavera, come la bella stagione».

«Ah, Pranvera sarebbe Primavera. Pensa un po’! E da quant’è che fai la vita, Primavera? Ti piace? E i tuoi lo sanno, là in Albania? Glielo hai detto ai tuoi che mestiere fai?».

«Mia madre è pure in Italia. Ma io non detto lei che faccio adesso. Padre è morto. Non ho più padre. E poi a me il mestiere piace. Tanti soldi, no brutto lavoro».

«Tanti soldi, no brutto lavoro? Senti questa! Beh, se riesci a fare soldi tu, Pranvera, vuol dire che c’è proprio fame qui in Sicilia, fame di…, beh, hai capito! Vai, vai ora, togliti dai piedi».

«Allora, Totò, ricapitoliamo: domani mattina il fetentissimo capitano Aspesi verrà all’alba al capannone con tre dei suoi. Sa che ci siamo io, te e le ragazze. Questa è la voce che gli ho fatto arrivare e lui non ha motivo di dubitare della fonte. Tu e gli uomini di Masino Marchese sarete già nascosti sul posto. Li disarmate, li legate e li portate nel capanno a fianco. Lui lo lasciate in quello principale, lo tenete sotto tiro e poi chiamate me. Io arrivo e lo sistemo. È tutto chiaro, Totò?».

«Certo, Don Sasà. Non vedo l’ora. Grazie della fiducia, Don Sasà».

 

* * *

 

La luce fioca dell’alba illuminava la campagna deserta.

All’interno del fienile più piccolo, Don Masino Marchesi e i suoi tirapiedi se ne stavano a terra stupiti, furiosi e ammanettati. Sorpresi da una squadra di carabinieri in borghese, appostata nella campagna dalla notte precedente, erano stati disarmati e ora erano tenuti sotto tiro. Come se non bastasse, a questo disonore si univa la rabbiosa consapevolezza di aver piazzato, senza alcun sospetto, una spia nelle file della mafia. A qualcuno tutto questo non sarebbe piaciuto per niente.

L’altro casolare era molto più grande. L’interno era silenzioso e in penombra. Ai lati, solo qualche vecchia panca e, sulla parete di fondo, un cumulo di balle di fieno alto quasi fino al soffitto. Al centro della stanza il capitano Aspesi, legato in maniera decisamente verosimile ad una sedia, impartiva le ultime disposizioni.

«Fate anche la minima, dico la minima stupidaggine che metta a rischio la vita di qualcuno e se non vi ammazza lui, giuro che poi lo faccio io con le mie mani», ringhiò rivolto a Totò.

«Tranquillo, capo. Ho capito. Lo avete ripetuto trentacinque volte. Sono pronto. Lo chiamo?», rispose Totò che a stento riusciva a dominare l’ansia.

«Sì, vai», mormorò l’altro e involontariamente alzò gli occhi verso l’alto, con la segreta speranza che qualcuno lassù, oltre il tetto del capannone, oltre le nuvole, guardasse in basso verso di loro.

Totò tirò fuori il cellulare e compose un numero. Il silenzio intorno a lui era assoluto.

«Venite, Don Sasà, è tutto a posto», mormorò a bassa voce nel microfono.

Pochi minuti dopo, un’auto frenò davanti al capannone.

 

* * *

 

«Sono stato contento di rivedervi, caro capitano. Vi è piaciuta la mia confessione? Era questa, no, che volevate sentire in punto di morte! Mi mancherete», sogghignò Sasà girando come una serpe, con la pistola in mano, intorno alla sedia sulla quale il capitano era legato.

«Hai visto, Totò? Non è stato poi così difficile portarlo qui. È un uomo che ascolta le voci, il nostro Dottor Aspesi».

Totò, in piedi accanto a Don Sasà, sorrideva soddisfatto.

«Avete proprio ragione, Don Sasà, alla fine siete riuscito a portarlo qui. Ora ci divertiremo un po’».

«Io mi divertirò, Sasà. Non tu. Lui è mio. Tu ti divertirai quando troverai il tuo di fetente…».

«Ma io l’ho già trovato, Don Sasà», disse Totò e si gettò fulmineo sull’altro togliendogli la pistola di mano e gettandola dall’altro lato del capannone. Poi gli passò un braccio intorno al collo e, stringendo l’uomo contro di sé, gli puntò la propria pistola alla tempia.

«È finita, bastardo», gli sussurrò all’orecchio.

Ma Sasà reagì d’istinto. Come un cane furioso gli addentò la mano, e voltando contemporaneamente la testa di scatto all’indietro, gli diede una potente testata in pieno volto facendogli perdere l’equilibrio.

Totò finì a terra e Sasà fu rapido ad impadronirsi della pistola.

In un attimo si portò alle spalle del capitano, e premendogli la pistola sulla gola mormorò con un ringhio strozzato: «Non ti muovere, che prima di scannarvi a tutti e due voglio sapere chi diavolo è questo!».

Totò non mosse un muscolo. Anche il capitano Aspesi era immobile e muto.

«Allora?! Lo devo ammazzare?!», gridò Sasà premendo più forte la pistola contro la gola del capitano. In quell’istante, però, la sua istintiva e animale percezione del pericolo gli fece intuire il fulmineo sguardo lanciato da Totò alle sue spalle. Ma non fece neanche in tempo ad accennare una reazione. La canna di una pistola era premuta con forza contro la sua nuca e la voce di Totò gli ordinava di gettare la pistola. Sentì la sicura che veniva tolta e lasciò cadere l’arma a terra.

Totò la raccolse con calma: «Non fare un gesto, Sasà, o sei morto. Sei sotto il tiro di due pistole, alza le mani e fai un passo in avanti. Non ti voltare».

L’uomo ubbidì, mentre il capitano Aspesi si alzava, agile come un novello Houdini, gettando a terra un mucchio di lacci e di corde, e lo ammanettava.

«Ora puoi girarti, se ci tieni, amico», gli disse sarcastico Totò, che si era scostato la frangia dalla fronte con un gesto della mano e lo fissava con lo sguardo duro e inaspettatamente intelligente.

Fu allora che, voltandosi, Sasà quasi vacillò per la sorpresa. Davanti a lui la prostituta numero cinque, a braccia tese, lo teneva sotto tiro. Le mani erano fermissime e la posizione quella di un tiratore scelto.

«E questa chi cavulu c’entra?», biascicò Don Sasà, che quando si agitava gli usciva fuori il dialetto.

«La prostituta albanese, gli avete dato la pistola a lei. E Masino dov’è? Che razza di affare è questo?».

«Masino sta di là, in manette, parecchio infuriato per la figura che hai fatto fare a lui e a Don Ciccio Ingranata con questa bella trovata dello spaccio di droga. Anzi, mi sa che vi mettiamo in carcere insieme, così i numeri delle prostitute ve li giocate a dadi!», disse Primavera, che inspiegabilmente sembrava aver acquisito nel giro di una notte una perfetta padronanza della lingua italiana.

«Ma chi siete voi due?», mormorò Don Sasà, che alla prospettiva di finire, non solo in carcere, ma con quella bella compagnia, si sentiva tremare le vene e i polsi.

«Non vi ricordate, Don Sasà? Quei funerali in pompa magna. Dieci anni fa. C’erano dei ragazzini al funerale. Orfani. Beh, siamo noi. Io e Pranvera. Suo padre è morto. Dovresti saperlo. Faceva il carabiniere. Come il mio. Li hai ammazzati tu. Tutti e due. Sua madre, invece, è viva. Albanese, segretaria di ambasciata. Non sa che sua figlia fa la prostituta per copertura. Si sarebbe preoccupata. Sa invece che è un carabiniere dei Reparti operativi, come me. Mica sono tutte prostitute, le albanesi. Questo è quello che credi tu, Sasà. Ora, però, del fatto che siamo carabinieri noi ce ne scordiamo e ti ammazziamo. Poi diciamo che tu eri armato, che ci hai sparato e disgraziatamente non abbiamo potuto far altro che ucciderti. No brutto lavoro questo, a volte, che ne dici Pranvera?».

«Un momento. Quello che ho ammazzato io non aveva figli. Lorusso si chiamava. Ma aspetta… ora capisco. Voi siete i figli degli altri, quelli della scorta… Erano quattro, mi pare, o cinque? Come si chiamavano? I nomi di quei disgraziati manco li so, figuriamoci, non li ho mai saputi».

«Ora ti metti seduto, delinquente che non sei altro! E non ti muovi!», gridò Pranvera sbattendo Sasà con violenza sulla sedia.

«A proposito, Totò, cos’è che aveva detto il nostro amico? Mi pare che avesse parlato di un gelato, vero? Ti ricordi anche tu?».

 «Come no», confermò Totò avvicinandosi, «aspetta, ha detto esattamente…».

«Ma che dicono questi? Sono impazziti! Capitano, lei non può permettere…».

Il capitano Aspesi, però, ostentando un’insolita distrazione, gli voltava ostinatamente le spalle e pareva non sentirlo. 

«Ecco, ora mi ricordo le precise parole: “Ti auguro con tutto il cuore di trovarlo, di staccargli i gioielli di famiglia e di servirglieli su un cono gelato”. Ha detto così, no? Lo hai sentito anche tu? Bene! Io intanto ho portato il cono», esclamò Totò continuando a tenerlo sotto tiro e tirando fuori da uno zaino una cialda da gelato. «Ora mi mancano solo i gioielli…», e voltandosi di scatto, con la pistola in pugno, sparò due colpi dritti e precisi in mezzo alle gambe di Sasà.  

Gli spari risuonarono come tuoni nel capannone deserto. Una macchia scura si allargò fra le gambe dell’uomo che si accasciò sulla sedia.

«È svenuto, questo farabutto! E se l’è pure fatta sotto per la paura… Credeva sul serio che ad un matto come te gli avrei lasciato una pistola carica?», intervenne il capitano Aspesi, il quale da mesi non aspettava altro che si concludesse tutta quella catartica messinscena e che solo adesso pareva aver ritrovato il suo buonumore.

«A proposito: quella buona ce l’hai, almeno, o sei matto sul serio?».

«Certo, capitano! Matto sì, ma mica scemo del tutto», esclamò Totò sfilando un’altra pistola dalla cintura dei pantaloni.

«Volevo vedere… E comunque, ragazzi… grazie. Ne avete avuto, di coraggio. Ma io ho perso dieci anni di vita appresso a voi. Da oggi, per sei mesi, solo lavori d’ufficio!», concluse burbero avvicinandosi ai due giovani carabinieri. «Vabbè, ora facciamola finita. Chiamate gli altri e allontanate dalla mia vista questo relitto».

 

* * *

 

Il sole bruciante sembrava quasi voler spaccare il cemento grigio del pavimento. Il cortile del carcere era deserto. In maniera sinistramente insolita per quell’ora del giorno. Sasà, che dal momento dell’arresto aveva i sensi all’erta, fu colto da una vaga ma opprimente sensazione d’inquietudine e di disagio. Fece impulsivamente qualche passo verso una zona d’ombra, come per sentirsi più protetto. Precauzione istintiva quanto inutile. Dopo un istante, una mano si posò amichevolmente sulla sua spalla mentre una lama gli pungeva la pelle al centro della schiena. Aveva sempre saputo che prima o poi sarebbe successo.

«Don Sasà, in una giornata così bella, ve ne andate a spasso tutto solo? Venite, Don Sasà, che ci sono un paio di amici che non vedono l’ora di fare quattro chiacchiere con voi… Vogliono essere sicuri che non possiate mai più buggerare qualcuno come avete fatto con loro… Coraggio, Don Sasà, andiamo».