Dopo una panoramica sul cinema asiatico si torna al meno prolifico ma non per questo inferiore cinema marziale statunitense. La collana “Bruce Lee e il grande cinema delle arti marziali”, firmata Gazzetta dello Sport e Stefano Di Marino, porta in edicola un film che vede da una parte l’esordio registico di Jean-Claude Van Damme, dall’altra il suo ritorno al cinema marziale dopo diversi anni di generici action movies: stiamo parlando di “La prova” (The Quest, 1996), una pellicola che nelle intenzioni si presenta come un film epico sulle arti marziali, mostrando una folta schiera di attori-atleti provenienti da ogni parte del mondo.
Il progetto originale era un film dal titolo “The Kumite” scritto da Frank Dux, l’atleta alle cui imprese si ispira il film “Senza esclusione di colpi!” e che in seguito collaborò con Van Damme: proprio quest’ultimo prese in mano il progetto rimasto incompiuto e lo sviluppò fino a farne un film che in patria, purtroppo, non ha riscosso lo stesso successo che invece ha conosciuto all’estero.
Nella New York degli anni Venti, Christopher Dubois (Van Damme) è un ladruncolo da strada che per salvare un amico si mette nei guai con alcuni gangster: decide che per salvare la pelle è ora di cambiare aria. Il destino lo vedrà venduto come schiavo; un maestro thailandese gli insegnerà la muay thai e Dubois, ormai libero, vuole partecipare al Torneo Ghang-gheng che si svolge in una Città Perduta nei monti dell’Himalaya tibetana. Il vincitore riceverà il Golden Dragon, una statua d’oro: sarà questa, molto più del torneo, a fare gola a Lord Edgar Dobbs (Roger Moore), avventuriero che aiuterà Dubois facendogli da manager.
«Per più di vent’anni “I 3 dell’Operazione Drago” è stata la pietra di paragone dei successivi film marziali: ma tutto questo può cambiare con l’uscita del film “La prova”»: così scrive Terence Allen nel numero di giugno 1996 della rivista “Black Belt Magazine”. Forse è un giudizio un po’ esagerato, ma di sicuro sottolinea lo stretto rapporto tra i due titoli citati. Dopo il celebre film di Bruce Lee infatti - presente in questa stessa collana - altre pellicole hanno voluto raccoglierne l’eredità presentando storie di tornei marziali più o meno legali (e letali!) in cui vari stili si possano confrontare spesso all’ultimo sangue.
Van Damme stesso deve la sua notorietà ad un film di questo genere come “Senza esclusione di colpi!” (Bloodsport, 1988), mentre merita una citazione il meno conosciuto “Kickboxer 4: l’aggressore” (Kickboxer 4 - The Aggressor, 1994), dove il cattivo di turno è quel Tong Po conosciuto nel primo “Kickboxer” (1989).
La storia de “La prova” ha indiscutibilmente un debito verso “Senza esclusione di colpi!” e non a caso gli sceneggiatori Van Damme e Frank Dux sono coinvolti direttamente in quel primo film. I due partono da un sicuro successo per poi aggiungere vari elementi esotici, come l’allenamento di muay thai su una spiaggia del sud-est asiatico, elemento che si ritroverà spesso nel cinema marziale thailandese successivo.
Malgrado gli ottimi interpreti - il celebre Roger Moore in testa, vero padrino della pellicola - la forza del film è tutta nel Ghang-gheng, il torneo marziale in cui gli attori-atleti danno il meglio di sé e, onestamente, danno spessore ad un film grezzo che in fondo è l’opera prima di un regista esordiente. (Non possiamo dire quale veramente sia il potenziale di Van Damme dietro la macchina da presa, visto che l’unico suo altro film diretto è il fantomatico “The Eagle Path”, da un anno chiuso in un cassetto!)
«Van Damme ha impiegato tre anni cercando e mettendo alla prova artisti marziali da tutto il mondo - racconta Jim Coleman nello stesso numero di “Black Belt” - per scegliere un cast di lottatori che non sembra avere eguali nel cinema marziale.» Lo stunt coordinator Mark Stefanich e il coreografo Steven Lambert affiancano il regista nel creare le condizioni ideali per portare sullo schermo dei combattimenti al loro meglio: pare che ogni sequenza sul ring sia stata ripresa da venti angolature diverse, così da scegliere le migliori scene nel montaggio finale.
Dalla muay thailandese alla capoeira brasiliana, dal sumo giapponese al taekwondo coreano, dal savate francese alla lotta greco-romana: moltissimi gli stili marziali rappresentati nel Ghang-gheng! Visto che molti dei lottatori della pellicola sono esperti dei propri stili, questo aggiunge grande realismo alle scene di combattimento ma anche... molta fantasia!
Abdel Qissi (fratello di quel Michel con cui Van Damme ha lavorato molto nei primi film) pratica la boxe e il savate, ma nel film si lancia in una versione mongola del wrestling; Peter Malota, atleta di karate, taekwondo e aikido, si lancia nella pellicola in uno stile marziale fuso con il flamenco spagnolo. «Non c’è mai stato un film come questo - ha detto Van Damme - che mostri differenti stili marziali in un modo così efficace.»
Il film, infine, ha un raro pregio: è stata la prima opera dell’attore belga a guadagnarsi un lungo servizio della rivista italiana “Ciak”, storicamente attenta nell’ignorare le uscite di genere marziale. In realtà più che un articolo è una presa in giro bella e buona: dopo aver descritto (con malcelato divertimento) le varie disavventure amorose dell’attore - che poco hanno a che vedere con il film - il pezzo tutt’altro che lusinghiero si chiude con la notizia che «Van Damme, nel vano tentativo di proseguire le riprese, arriva persino a pubblicare su giornali europei specializzati un invito a tutti i giovani amanti di arti marziali disposti a trasformarsi in gratuite comparse.»
Forse sarebbe stato meglio che la rivista di cinema nostrana avesse continuato a mantenere l’assoluto silenzio su Van Damme, come aveva fatto in tutti gli anni precedenti!
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