Può un romanzo di formazione, lieve e spumeggiante, grondare letteralmente bibliofilia? Può la storia di un’estate magica di un tredicenne affondare le radici nella natura stessa della letteratura? Può eccome, e “Il libro selvaggio” ne è la luminosa testimonianza.
Juan Villoro è un premiato giornalista, traduttore e scrittore messicano. Questa sua storia non trae la propria forza da una particolare originalità, anzi sembra studiata per ripercorrere i più classici dettami del romanzo di formazione. Juanito è un ragazzo che sta vivendo una difficile situazione familiare - il romanzo si apre con il divorzio dei suoi genitori - e visto che la scuola è finita, viene mandato a passare l’estate a casa di suo zio Tito, svitato ma arzillo vecchietto che vive rinchiuso nella sua sconfinata e a volte misteriosa biblioteca. Una tenera storia d’amore giovanile, strani e magici eventi e un mistero da affrontare renderanno l’estate di Juanito la più indimenticabile della sua vita. Fin qui, come si diceva, niente di nuovo.
La forza de “Il libro selvaggio” si annida in una fenomenale “apologia libraria”: una dichiarazione d’amore per i libri e la lettura che ammalia e riempe il cuore. La magica biblioteca di zio Tito è una versione “positiva” della terribile Biblioteca di Babele borgesiana, e gli strani comportamenti dei suoi libri non sono inquietanti e paradossali come quelli del maestro argentino. «I libri sono molto sfuggenti. Ne cerchi uno su uno scaffale e lo trovi su un altro, oppure scompare per anni e d’improvviso te lo ritrovi sotto il naso. [...] Credi di essere tu ad aver deciso di comprare un libro, ma in realtà è lui che si è messo lì perché lo vedessi e te ne sentissi attratto. I libri non vogliono essere letti da chiunque, vogliono essere letti dalle persone migliori, per questo si cercano da soli i lettori.»
Il confronto appena fatto con il poeta di Buenos Aires non è casuale: Villoro dimostra apertamente di essere un grande estimatore di Borges («un argentino nella biblioteca di calle México», «l’argentino cieco»), e lo fa nell’unico vero modo in cui uno scrittore può farlo: sbagliando una citazione...
Chiediamo al lettore la pazienza di una breve digressione - la storia di un errore - che servirà a capire quanto profondo sia debito borgesiano de “Il libro selvaggio”.
Jorge Luis Borges amava Virgilio e amava gli scritti del monaco benedettino Beda il Venerabile (672-735): si può quindi comprendere la gioia di trovare dei testi in cui Beda citava Virgilio. Però Borges scoprì (e fece notare) un errore: in uno scritto Beda sbagliò a citare Virgilio. Nel saggio “Letterature germaniche medioevali” il maestro argentino scrive: «Un lieve errore – Beda non scrive umbram, bensì umbras – prova che il verso è stato citato a memoria e, di conseguenza, la familiarità dello storico sassone con Virgilio».
Quando nel 1960 vede la luce in patria l’antologia “L’artefice”, chissà quanti notarono che ad un certo punto Borges... citava Virgilio in modo errato! Invece del corretto umbram si può leggere umbras: un errore tipografico? Ciò non concorda con le abitudini del caso, per usare le parole dell’autore: molto probabilmente Borges volle omaggiare Beda ripetendo il suo errore, anche se non dovette ottenere soddisfazione dal suo sottile gioco letterario, visto che quando revisionò il testo nel 1974 riportò la citazione in modo corretto. (In Italia l’errore non pare essere stato notato: le edizioni che si rifanno al 1960 riportano umbras, quelle che si rifanno al 1974 umbram.)
L’amore per uno scrittore può far sì che si vogliano ripetere i suoi errori, quindi. Per esempio Borges raccontò più volte che da bambino lesse un voluminoso libro sulle sette meraviglie del mondo, ma ogni volta che gli capitò di citarle sbagliò sempre qualcosa: a volte aggiungeva una Sfinge, altre era fermamente convinto che fra di esse vi fosse il labirinto di Creta. Non sarebbe un delizioso omaggio, per un autore che ami il poeta di Buenos Aires, sbagliare volutamente una citazione sulle meraviglie del mondo?
Ci piace pensare che questo è stato il volere di Villoro quando, a pag. 62, scrive: «La biblioteca di Alessandria era una delle sette meraviglie del mondo.» Visto che è un errore (era il Faro di Alessandria ad essere fra le meraviglie), quale miglior modo di dichiararsi profondamente borgesiano?
Al di là dell’universo borgesiano (fatto di Kafka, Melville e grandi lettori ciechi), “Il libro selvaggio” è anche una divertente storia sugli sforzi dei protagonisti di mettere le mani su un libro indomito... selvaggio, appunto. Fra gli incredibili tomi della biblioteca di zio Tito, infatti, si nasconde un libro che non ha mai voluto farsi leggere, che non ha mai voluto cadere fra le mani di alcun lettore: solamente un lettore princeps, un lettore unico con grandi poteri come il protagonista Juanito ha la possibilità di domare il Libro selvaggio («È bianco e non ha caratteri. Sembra un libro non finito»).
È un manifesto dell’amore per la lettura, atto che non è così passivo come molti credono: chi legge in realtà modifica non solo la storia del libro che stringe fra le mani, ma la propria vita e quella degli altri.
Attraverso una gran quantità di magia libraria e frasi da incorniciare, “Il libro selvaggio” guida il lettore con levità e delizia fino alla fine: fine nella quale - lo sa bene Cornelio - risiede il principio di ogni storia.
C’è un ultimo strato da analizzare di questo ricco romanzo: la delizia della “cucina letteraria”.
Zio Tito, infatti, è un grande amante di ricette culinarie legate in un qualche modo ad elementi letterari. Qualche esempio? Omelette Omero (da prepararsi ovviamente ad occhi chiusi!), lo strudel di Newton, pesce alla Moby Dick, zuppa di polpo alla Capitano Nemo, affogato del Corsaro Nero e tanti altri.
È proprio il caso di dirlo: è un libro per tutti i palati!
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