Non c'è fretta, lo farò. Non bisogna mai, avere fretta di morire. È importante quel che sto per fare, è urgente farlo, ma non ho fretta di farlo. Devo prima immaginare ogni cosa, dell'uomo nemico, ogni lineamento, ogni particolare, ogni idea, altezza e colore dei capelli, degli occhi. Magari si mangiava le unghie, magari aveva sul volto i segni dell’acne. Magari l'ho ammazzato io.

La canna sbatte sui denti, non ho aperto abbastanza la bocca. Non è un fatto di volontà, è che i miei muscoli non mandano gli impulsi di ritorno giusti al cervello, ero convinto di avere la bocca spalancata, invece le mascelle sono contratte ed irrigidite, in uno spasmo. Magari simile al suo, quando ha aperto la bocca per attirare a sè l'ultima aria, un anelito non è servito a guarirlo dalla malattia della morte. Solo il mio braccio destro e la bocca si muovono. Tra poco si muoverà solo l'indice della mano destra, nell'ultimo movimento consapevole della mia vita.

I muscoli involontari continuano a muoversi, il cuore batte. Cazzo, fosse possibile ammazzarsi comandando al cuore di smettere di battere, così, semplicemente. Il cuore batte impazzito in un sovrapporsi ed accavallarsi di pulsazioni incontrollate. Non ci sono solo i miei battiti, sono due, i cuori che battono nel mio petto, asincroni, disturbandosi tra loro. C'è anche il cuore del nemico.

E sangue e reni e fegato e cervello. Continuano a funzionare.

Naso e palato. Non sento rumori, sembra tutto silenzio, l'erba non ha odore, la pelle non ha recettori per sentire freddo ed umido, ma il naso attraverso la gola sente forte l'odore della pirite ed il palato sente il sapore dell'acciaio, non è una forchetta. Strana consistenza, sapore amaro. Rimane solo da fare l'ultimo gesto, il più piccolo che un uomo possa fare, infinitamente forte. La forza di un milione di formiche, in un solo dito di uomo.

Clac.

Non esiste suono abbastanza fedele da riprodurre con lettere, con una parola. Si inceppano solo le pistole automatiche, la mia non lo è.

Avevo ancora due colpi, solo non avevo controllato che il tamburo fosse in posizione, dopo l'ultimo colpo sparato avevo aperto il tamburo, l'avevo fatto girare in un gesto infantile, senza ricaricarlo.

Scoppia tutto insieme; mi accorgo di colpo di tutto. Una esplosione di rumore mi colpisce, una puzza di merda ed immondizia che imputridisce in cui le mie scarpe pesanti stanno affondando, che mi sta entrando nei calzini. Freddo che mi è entrato fino nelle ossa, nel cervello, che mi fa rabbrividire.

La mia pistola vola verso il fiume, fino al centro del fiume. Affonderà certamente nella melma di mille travasi, nella mota di montagne polverizzate e trascinate verso il mare. Forse è ancora lì, sepolta.

Non sto meglio di prima; ma sono vivo.

Non sto peggio di prima, ma non ci posso più provare, non stanotte.

Mia madre mi aspetta, nel letto, con gli occhi sbarrati nel buio. Mio padre, non so. Se mi aspettano, comunque, non ne parlano. Ciascuno con la sua separata paura, ciascuno con la sua rabbia verso me, con il suo amore per me, diverso l'uno dall'altro.

Camminare e camminare, verso stazioni deserte, senza nessun treno da prendere, per andare dove, poi?

Camminare fino a che non arrivi la luce, prima grigia di nebbia, poi caliginosa di foschia, poi nitida. Come se l'aria fosse fatta di lastre di cristallo a lente Che ingrandiscono e dettagliano ogni cosa. Camminare, fino a che una radio, dentro a un bar, non dice che il nemico è morto durante una colluttazione, con un colpo sparato da vicino, a bruciapelo, da qualcuno che ha avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, mentre gli sparava nella pancia.

Adesso posso piangere.

Adesso posso tornare da mia madre, che mi aspetta ancora.