Fra il 1516 e il 1530 il giovane Hernando Colón compì tre viaggi in Italia alla ricerca delle proprie origini, dei propri antenati italiani e soprattutto per trovare informazioni su suo padre, uomo che per tutta la vita mantenne il più assoluto silenzio sul proprio passato: Cristoforo Colombo.
Forse il ragazzo non sapeva che in Italia un traduttore poco accorto aveva creduto che il cognome Colón volesse dire “colombo” e aveva ribattezzato il padre Columbus, in latino: di sicuro il giovane Hernando sapeva bene che il proprio cognome deriva sì dal latino, ma dalla parola colono. Un soprannome che il padre navigatore (che i suoi contemporanei affermarono chiamarsi in verità Guerra, o Guierra) scelse a mo’ di portafortuna per l’impresa che voleva intraprendere: “colonizzare” l’India.
Hernando si recò subito a Genova, perché tantissime fonti dicono che il padre fosse genovese. Chiese in giro alla gente, cercò in Comune, nelle biblioteche... ma di Cristoforo Colombo suo padre non trovò assolutamente nulla. L’unica cosa che trovò fu a Piacenza, dove identificò le tombe della propria famiglia.
Alla fine del viaggio, dopo aver visitato molte grandi città d’Italia senza aver trovato la benché minima traccia del padre, il giovane Hernando chiuse il suo resoconto, “Historia del Almirante”, con questa conclusione: il padre era genovese!
Com’è possibile che l’assenza di prove abbia generato una tale conclusione? E se le fantomatiche tombe della sua famiglia sono a Piacenza, perché allora questa sicurezza su Genova come città natale?
Il resoconto del giovane Hernando alla fine creerà più confusione di quanta ne volesse sciogliere. Come se non bastasse, Hernando morì senza mai dare alla luce il testo, il quale finì nelle mani del nipote, Luís de Colón. Nel 1569 il manoscritto della “Historia del Almirante” fece gola al genovese Baliano Fornari, che propose alla famiglia Colón di pubblicarlo in tre lingue: latino, castigliano e italiano. In realtà, non solo le prime due lingue non videro mai luce, non solo del manoscritto originale si perse ogni traccia, ma l’unica lingua che venne realmente pubblicata, nel 1576, fu l’italiano e in questa si dice che il giovane Hernando arrivò a conclusione certa che il padre era genovese... Che il traduttore ed editore genovese abbia voluto manomettere la conclusione finale per rendere “servigio” alla propria patria?
Questa storia - che assomiglia molto alla vicenda del reverendo James Wilmot che cercava inutilmente tracce di Shakespeare a Stratford-upon-Avon, raccontata in un precedente articolo di questa rubrica - illustra quanto siano spinose le questioni storiche quando ci sono grandi interessi in ballo e quanto sia difficile barcamenarsi attraverso fonti che potrebbero essere state manomesse. La veridicità stessa della storia del viaggio di Hernando Colón in Italia è messa in dubbio dal fatto che la conosciamo esclusivamente grazie alla traduzione del genovese Fornari: figurarsi quanti problemi genera lo stabilire l’autenticità di quelle sparute prove rimasteci dell’esistenza di uno fra gli uomini più misteriosi della storia: Cristoforo Colombo.
Su di lui, più passa il tempo più crescono le prove: il problema è che queste prove vengono sempre portate alla luce in momenti strategici e sempre da chi ne gioverebbe dall’autenticità: gli interessi in ballo sono così alti che un’analisi oggettiva e distaccata non sembra possibile. Forse il modo migliore per avvicinarsi al misterioso navigatore (che mai si firmò Colombo) è scriverci un romanzo.
Così ha fatto il portoghese José Rodrigues Dos Santos con il suo voluminoso “Il Codice 632”. Definirlo thriller o anche solo romanzo è molto azzardato: è un lungo, esaustivo e ben studiato saggio su tutti gli aspetti misteriosi e discordanti che riguardano la vita e l’impresa di Colón, navigatore che non diede mai ai biografi la più piccola informazione, che tenne allo scuro del proprio passato persino il figlio, e che è ricordato per aver “scoperto” il continente americano. Le virgolette sono d’obbligo sia perché altri popoli avevano già scoperto le Americhe in secoli precedenti, sia perché Dos Santos stesso nel suo romanzo pone l’accento sul fatto che molte prove dimostrerebbero che i portoghesi - i migliori navigatori di quel tempo - già avevano scoperto quelle terre anni prima: furono loro anzi a mettere Colombo sulla buona strada...
Non c’è ovviamente spazio per riportare qui le innumerevoli tesi, prove, sospetti, ipotesi e quant’altro riportato nel corposo volume di Dos Santos, ma si sottolinea l’ottimo ed approfondito lavoro di ricerca che rende decisamente plausibili le conclusioni dell’autore, che rimangono pur sempre stupefacenti.
Ma cosa c’entra tutto questo con gli pseudobiblia?
Quando si parla di Colombo (così come di altri grandi misteri della storia) al mare in piena di ipotesi e tesi manca sempre un elemento importante: la smoking gun, la prova certa, incontrovertibile, al di là di qualsiasi dubbio. Sul celebre navigatore abbiamo fior fiore di prove assolutamente indiziarie, documentazioni aleatorie e testi a forte probabilità di manomissione: l’unica prova certa è il “Codex 632” presentato d Dos Santos.
Però l’autore specifica subito, nella prima pagina del libro, che tutti i testi citati nella narrazione sono reali... compreso il “Codex 632”. Ma la scritta stessa fa parte di un romanzo, che è finzione, e se una finzione afferma di dire la verità... la dice veramente? Da notare poi che il “Codex 632” - cioè un antico documento fenomenale che ai raggi X svelerebbe la vera identità di Colombo - alla fine del romanzo scompare, perché ovviamente i grandi interessi in ballo non possono permettere che vengano infranti 500 anni di illazioni sul navigatore: la distruzione o la sparizione alla fine della storia è peculiarità degli pseudobiblia, che alla fine devono tornare ad essere “libri falsi”, cioè non esistenti nella realtà di chi legge.
Dos Santos chiude il suo romanzo in forma circolare: il protagonista, finita la ricerca su Colombo ma impossibilitato a presentarla come saggio, decide di mettersi a scrivere un romanzo sulla ricerca stessa, e le prime parole che scrive sono quelle con cui si apre il romanzo stesso. L’espediente squisitamente letterario si sposa con l’adozione di uno pseudobiblion provvidenziale che sbrogli la situazione, anche se - è giusto dirlo - non fa altro che annoverarsi fra le “prove stranamente provvidenziali”: Dos Santos è portoghese e guarda caso, come genovesi e spagnoli, ha trovato prove che farebbero risalire Colombo alla propria patria.
Vogliamo chiudere segnalando una coincidenza. Dos Santos scrive “Il Codice 632” nel 2005, lo stesso anno in cui l’ex ufficiale della Marina britannica Gavin Menzies sconvolge l’Occidente mostrando nuove scoperte riguardanti Zhang He (1371-1434), il più grande navigatore della storia. L’ammiraglio cinese, di indiscussa fama in tutto il mondo, avrebbe compiuto tutte le imprese dei navigatori occidentali svariati decenni prima: addirittura avrebbe scoperto l’Australia 350 anni prima James Cook. Sempre secondo Menzies, il mercante veneziano Nicolò da Conti nel 1428 consegnò ai portoghesi una mappa (datata 1424) delle terre cinesi avuta proprio da Zhang He: in questa sono riconoscibili anche due isole del continente americano... settant’anni prima della sua “scoperta ufficiale” da parte di Colombo.
Malgrado la comunità scientifica, anche cinese, tenda a ridimensionare molto l’entità delle imprese di Zhang He e a sollevare dubbi su probabili inserimenti posteriori nelle mappe a lui ascrivibili, lo stesso questa rivelazione combacia talmente alla perfezione con le tesi di Dos Santos che, se ne fosse venuto a conoscenza in tempo, l’avrebbe di sicuro citata.
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