Empedocle diceva che il mondo è costituito dalla combinazione di quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. L'informazione in questo periodo storico ha acquisito sempre più spazio a livello globale tanto da catalizzare in modo esponenziale il diritto alla conoscenza, ecco perché, per rimanere all’interno del concetto del filosofo, possiamo considerare l’informazione alla stregua di un quinto elemento. Oggi gli strumenti per accedere a tali risorse, oltre alla fruibilità della carta stampata e alla tv è anche l’informazione divulgata via etere che aumenta l’utenza di chi vuole informarsi. Ma quanto, di ciò che viene passato per informazione si può considerare davvero tale? Quante le notizie prima filtrate, elaborate, depurate arrivano poi a noi ormai prive della loro consistenza? Ecco perché abbiamo voluto parlare nella nostra rubrica con un giornalista investigativo che ha fatto dell’informazione la propria attività. Si chiama Olle Lonnaeus, cresciuto in una piccola cittadina di una provincia svedese, che tra poco scopriremo essere anche tra le location in cui è ambientato il suo primo romanzo. Lonnaeus ha realizzato nel corso della sua carriera da giornalista investigativo reportage su Iran, Libia, Israele e altri paesi del medioriente mettendo al servizio dell’informazione la propria vita. Il giornalismo investigativo oggi sembra pagare le conseguenze della globalizzazione, perché dietro alla facciata di una presunta integrazione, il sistema elabora strategie sempre più sottili per celare il meccanismo che sta dietro alla speculazione del fenomeno, ecco che chi fa giornalismo di inchiesta e scava dietro la maschera dell’espansione comunitaria “civile”, non ha sempre vita facile.
Che cosa l’ha spinta a diventare un giornalista investigativo?
Credo sia stata una combinazione tra la curiosità nei confronti delle persone e della società e una ferma convinzione che le cose possano migliorare se alcuni segreti, compresa l’ingiustizia sociale creata da chi detiene il potere, può essere portata alla luce.
È pericoloso per le persone ordinarie, che quindi non posseggono una formazione giornalistica, reperire informazioni personalmente?
Se si parla di social media è un bene che possano contribuire a dare maggiore trasparenza alla società. Poi ovviamente ci sono anche dei rischi come trattare le informazioni in modo corretto e non bruciare le fonti. In generale oggi il problema non è la mancanza di informazione ma l’enorme quantità di informazioni che sono effettivamente disponibili e alla portata di tutti, forse bisognerebbe avere una formazione giornalistica per interpretare i fatti secondo certi criteri.
Secondo lei si riscontra una certa crisi giornalistica nelle redazioni?
Non solo nei giornali locali si riscontra questo ma anche in tutti i media dell’occidente. Quotidiani, tv, in tutto il mondo si risente di una crisi economica. Questo porta a produrre materiale sempre più economico rispetto al giornalismo investigativo che richiede invece più tempo e investimento di denaro.
Che cosa pensa della figura del serial killer figlio della società industrializzata?
Molti crimini nella storia portano la firma dei serial killer. Con molto spargimento di sangue per di più, ma questo genere di fatti non mi interessa professionalmente. Penso che un killer uccida perché è pazzo. Triste per una vittima certo, ma a mio parere non così interessante da studiarlo, neppure per scriverne un romanzo.
Una delle regole d’oro del giornalismo è quella di non essere coinvolti nella storia. Ci da ragione?
Certo, penso sia un’ottima regola. Ma questo non significa essere un robot e non provare emozioni verso quello che vedi.
Pensa che oggi il giornalismo abbia ancora delle storie da raccontare?
Penso che ci siano ancora molte storie che hanno bisogno di essere raccontate, meglio però se lontane dal luogo in cui avvengono. I giornalisti e i media detengono infondo il potere. Neanche per un attimo ho mai pensato che possediamo il quadro completo di quello che facciano i politici e le multi nazionali dietro alle proprie porte.
Qual è la storia più spaventosa che ha scoperto?
Ce ne sono state alcune. Una delle mie prime missioni da giornalista all’estero è stata quella della sanguinosa rivolta di Ceausescu in Romania nel 1989. Gli ultimi anni della guerra a Gaza però sono stati i più brutali.
Desiderava fare giornalismo nella vita?
Si e no. Quando ero giovane ho studiato legge. Avevo l’idea di diventare un avvocato e aiutare i poveri e i bisognosi. Scrivere tuttavia è sempre stata per me una cosa naturale. Quando ho scoperto che la vita per me non era stare dentro a un tribunale, sono diventato giornalista e non me ne sono mai pentito.
Ci racconta qualcosa del suo primo romanzo “Il bambino della città ghiacciata” edito da Newton Compton, anche tra queste pagine si evince la vena giornalistica…
La storia è basata su di un uomo, Konrad Jonsson, che torna nella sua città natale per ritrovare le proprie radici. Quando cerca di scoprire cosa sia successo alla madre biologica, scomparsa quando aveva solo sei anni, il protagonista si confronta con alcune cose da cui era fuggito da giovane, come la xenofobia e una sorta di ostilità che faceva parte della mentalità ristretta di una piccola cittadina come quella in cui appunto viveva.
Cosa preferisce, il giornalismo o scrivere romanzi?
Amo entrambi, sono convinto che posso trarre frutti da ambedue le cose, sia il giornalismo che scrivere romanzi, trattano come tema le persone e la società, il giornalismo è più reale, nei romanzi invece si può parlare di persone e fatti che non esistono anche se devi imparare a conoscerli mentre li crei, mi auguro che un romanzo possa anche raccontare qualcosa sul nostro mondo.
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