La collana “Bruce Lee e il grande cinema delle arti marziali” presenta un’altra pietra miliare del cinema asiatico: Gazzetta dello Sport e Stefano Di Marino hanno scelto di presentare in edicola questa settimana “Police Story” (Ging chat goo si, 1985), diretto e interpretato da Jackie Chan.
Per comprendere a pieno il fenomeno “Police Story” è imperativo un breve sguardo all’indietro. Agli inizi degli anni Ottanta Jackie Chan è una star incontrastata del gongfupian, protagonista di decine di film basati non solo su combattimenti a mani nude ma anche sulle qualità circensi dell’attore e sulla sua innata comicità fisica. Nel 1983, grazie a Sammo Hung, Jackie lavora per la prima volta in un film non in costume e ambientato ai tempi nostri: “Winners & Sinners”. Qui interpreta il ruolo di un poliziotto, cosa assolutamente inedita per l’attore, ed evidentemente il pubblico dev’essere stato favorevolmente colpito dall’operazione; dopo qualche altro film culto (“Project A, Operazione Pirati”, “Il mistero del Conte Lobos”), nel 1985 esplode deflagrante la mania “poliziesca”.
A febbraio esce il seguito di “Winners & Sinners”, intitolato in Italia “La gang degli svitati” (My Lucky Stars). Jackie è poco più di una comparsa, ma le sue sole scene danno vigore ad una pellicola che altro non è che un insieme di goliardate. Deciso a puntare tutto sul personaggio, a luglio prova a conquistare il pubblico statunitense con “The Protector”, storia di un poliziotto naturalizzato americano che torna ad Hong Kong per vendicare i criminali che gli hanno ucciso il collega: il cocente insuccesso della pellicola non intacca l’immagine di Jackie-poliziotto, tanto che ad agosto esce in patria “Bambole e botte” (My Lucky Stars 2), secondo sequel di “Winners & Sinners”. Il sodalizio con Sammo Hung prosegue imperterrito e a ottobre esce “La prima missione” (First Mission / Heart of Dragon): Jackie è sempre un comprimario in secondo piano ma è il suo ruolo di poliziotto serio a fare da contrappeso al ruolo semi-comico del protagonista Sammo. Ormai il terreno è pronto ad un ruolo da protagonista: a dicembre di questo ricco 1985 esce finalmente “Police Story”, il cui grande successo darà vita a sequel, più o meno riusciti, più o meno attinenti, che arrivano fino ai giorni nostri.
Kevin (Jackie Chan) è un solerte poliziotto tutto d’un pezzo che vuole a tutti i costi catturare il signore della droga Cho (Cho Leung), e per far questo è importante proteggere la segretaria Selena (Brigitte Lin), disposta a testimoniare contro l’ex capo. La testimone però scompare e Cho viene liberato, così come Kevin viene incastrato per l’omicidio di un suo collega, un poliziotto in realtà corrotto: il nostro dovrà quindi guardarsi sia dai criminali che dai poliziotti, cercando di incastrare i primi e di riabilitarsi agli occhi dei secondi.
“Police Story” è un film di transizione, e quindi ad elementi tipicamente polizieschi affianca eredità chiaramente derivanti dal gongfupian: un connubio che comunque detterà i canoni per la cinematografia successiva. Anche nelle situazioni più drammatiche, gli stunt e le coreografie sono roboanti e spumeggianti come nei film in costume, i colpi inferti non sono mai violenti e il corpo a corpo viene quasi sempre sostituito da una coreografia di gruppo complessa e di grande effetto.
Nel 1986 “Police Story” vince il premio come miglior pellicola all’Hong Kong Film Awards, e non è che il primo di una lunga serie di riconoscimenti: Chan stesso, nella sua autobiografia, lo definisce come il proprio miglior film d’azione.
Già nel 1988 si ha il primo sequel diretto, “Police Story 2”, seguito poi da “Supercop” nel 1992 e “First Strike” nel 1996. Mentre in questi ultimi lavori il tono serio e drammatico è ampiamente smorzato (se non del tutto assente), nel 2004 “New Police Story” si presenta non solo come quinto episodio ma come un vero e proprio noir: Chan è cupo e intenso e tutta la storia è a tinte fortissime.
“Police Story” è celebre per le sue scene d’azione al limite della resistenza umana e al limite della morte certa. In più di un’occasione le ferite riportate da Chan sul set sono state gravi e l’attore è stato trasportato in ospedale. Nel documentario “My Stunts” (1998) l’attore ripercorrerà scena per scena questo film raccontando aneddoti e rischi: rimane un vero miracolo che non sia morto durante le riprese!
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