Lei continua a fissare la cipolla che ha iniziato a stufare lentamente con uno sfrigolio appena percettibile. Senza rispondere.
“Hai capito che devo ammazzarti? Prima ceniamo coi parenti, poi ti ammazzo. Lo sapevo che ti stavi facendo montare da quel ragazzo e a dirti la verità non me ne importava nulla. Ma adesso lo sa tutto il paese e ti devo ammazzare per forza. A lui l’ho lasciato che rantolava in fondo a un burrone, tanto prima dell’anno nuovo non lo trovano. A te ti ammazzo stanotte. Perché non dici niente?”
Lei nel frattempo dopo aver pulito la lama della leppa sul grembiule aveva iniziato a tagliare a pezzi piccoli quello che restava del mio corpicino. Eppure fatto da lei non mi ha fatto nessuna impressione tante erano grazia e passione. Appena i liquidi della pentola si sono ritirati inizia a sistemare i pezzi che prendono a colorarsi di biondo.
La cucina si impregna di profumi che raggiungono l’apice quando butta nel recipiente di cottura un pugno abbondante di finocchietto selvatico.
“A lui non lo dovevi ammazzare.”
La voce distaccata non tradisce né emozioni né risentimento. Versa un bicchiere di vino bianco nella pentola e aumenta la fiamma. Lascia consumare ancora e dopo aver versato mezzo mestolo di brodo dal bollente, chiude con un coperchio smaltato di rosso e riporta il fuoco al minimo.
“A lui non lo dovevi ammazzare perché era bravo. Ero io che lo cercavo sempre. Hai fatto una cosa che non dovevi. La vita te ne chiederà conto prima di quanto immagini.”
Un silenzio lunghissimo viene interrotto da una delle zie che, anch’essa senza dire una parola, infila le coratelle nello spiedo, dopo aver acceso la televisione su canale cinque. La Signora grattugia mezzo limone dentro una tazza da te e ne spreme il succo dentro la pentola dove cuociono i miei resti.
“Marì io vado a cambiarmi a casa. Ci vediamo dopo. Gli gnocchetti sono fatti e li facciamo a casu furriau con il formaggio fresco. Tu Giuanne smettila di bere che poi ti dormi cenando.”
Nessuno le risponde mentre la vecchia esce. La Signora controlla la cottura dell’agnello con la punta delle dita. Un profumo di campagna invade l’aria. Spegne il fuoco. L’aggiunta della scorza di limone regala nuovi effluvi di fiori e quella campagna immaginaria di qualche minuto prima si riempie all’improvviso di ginestre, mirto e margherite. La festa degli odori sembra persino risvegliare per un attimo l’ubriaco dal torpore alcolico. L’ultima operazione è quella di aggiungere un uovo sbattuto alla preparazione dopo averne regolato il sale e il pepe. Mescola il tutto con un mestolo di legno e chiude ancora con il coperchio.
Prende lo spiedo con la coratella infilata e si avvicina al camino dove il marito continua a fissare in silenzio il fuoco e il porcetto. Solleva in alto lo spiedo e con tutta la forza lo infila sotto la nuca del Padrone facendolo spuntare dall’altra parte del collo. Lo schizzo di sangue le sporca il grembiule insieme a frammenti di budellini e fegato che mi appartenevano.
L’uomo cade in avanti di fianco con una guancia sulla brace. La Signora ha il viso sereno e luminoso di sempre. Tira fuori una tovaglia e apparecchia il tavolo a metà con le posate buone, versa un bicchiere di vino nero come la notte e mangia lentamente. Alzando la testa verso il soffitto guarda il vuoto e sorride e io so che quel sorriso è tutto mio.
Cinque minuti di viaggio per arrivare sulla porta della caserma dove il piantone l’accompagna nell’ufficio del maresciallo.
“Che c’è signora Loi?”
“Marescia’, ho appena ammazzato mio marito. Quando fra un po’ salirete a casa a vedere, se non si offende le chiederei di portarsi via una pentola di agnello in bianco appena fatta. È un peccato buttarlo via perché mi è uscito troppo bene.”
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