Se solo potessi portare con me i soldi, in questo limbo maledetto. Quindici milioni di euro. Una fortuna, anche per un tipo tosto come me. Me la sono sempre cavata bene, nella mia professione. Non ho mai patito la fame, neppure in galera. Ho sempre avuto di che mantenermi più che decorosamente e pagare gli avvocati. Non ho mai fatto mancare nulla alle mie donne; ma quindici milioni di euro, Cristo santo! Chi li aveva mai veduti tutti assieme. Li ho contati la notte prima che morissi. Quindicimila banconote da 500, dodicimilacinquecento da 200, ventimila da 100, quarantamila da 50, venticinquemila da 20 e come buon peso altri cinquantamila biglietti da 10 schifosissimi euro. Una fortuna che occupa due metri cubi di spazio. Stipando quasi a tappo, la piccola cantina segreta che ho scavato sotto le tavole del soggiorno della baita, su a Ca’ della neve. Nessuno poteva sapere che quella casetta di campagna appartenesse a me. Non ho resistito: dovevo toccarli, adorarli, baciarli. Dovevo masturbarmi come un pazzo pornografo feticista, sopra a quella montagna di banconote colorate.
Lo feci tre volte e per tre volte venni sui miei soldi. Da tempo non godevo così tanto. Dai tempi in cui mi facevo quattro donne a sera, durante la festa baldoria al night “Ferida” di Salò. Il locale del buon vecchio Frankie Valenti. Che riposi in pace. La chiamavamo la serata bum-bum, io e Sante. Carne fresca e coca a volontà. Botte ormonal-adrenaliniche da tagliare il fiato. Non a noi, naturalmente. Noi eravamo i sovrani della bella vita nel nord-est. Ci strafogavamo di ogni vizio, di tutti i lussi. Eravamo senza fondo! E all’alba il giro dei benzinai, da Brescia a Mestre. Li rapinavamo per divertimento, mica per i soldi. Lo scopo era godere senza freni. Quello era meglio di tutte le pecorine selvagge. Ci appagava più di qualsiasi donna.
Se Lara lo sapesse, si risentirebbe di questo. Fortunatamente resterà un segreto: io sono morto.
Adesso, quel denaro, appartiene a lei. Saprà come spenderlo e non farà mancare nulla a mia madre e mia figlia. Non baderà a spese per la mia tomba. Lara è una donna in gamba ed io merito un monumento, altro che una semplice lapide di marmo riciclato. Che cazzo sto dicendo... tanto non mi cambia niente. Sono morto!
Questi chi diavolo sono? Mi sforzo di ascoltare quello che dicono. Mia madre sussurra qualcosa all’orecchio di mia figlia. Annuisce e fa un cenno a Lara. Posso sentirli!
- Quando volete signora. – Dice un beccamorto.
- Anche adesso. – Risponde mia madre.
Mi sollevano di peso e m’infilano dentro la cassa di radica di noce, col raso bianco imbottito all’interno. Comoda e lussuosa. Lo sapevo che per me avrebbero riservato il meglio, le mie amate donne. Santo cielo, già mi chiudono? Se mettono il coperchio, non potrò più vederle. No! Vi prego, no! Non riesco a piangere, non posso urlare. Sono morto e loro non lo sanno.
- L’indirizzo è calle Reverberi, al 18. – E’ casa di mia madre, è casa mia.
- Questo è il nulla osta. Qui ci sono i documenti che autorizzano il trasporto della salma, in attesa del funerale. –
Una gran donna, mia madre. Forte e determinata. Ha il controllo della situazione. E’ riuscita a ottenere di portarmi via dal freddo e anonimo obitorio del cazzo. Per il mio ultimo viaggio, uscirò trionfalmente dalla casa in cui sono nato. Grazie, madre mia.
- Lo chiudiamo per il trasferimento. Arrivati a casa, lo scoperchiamo nuovamente. Non si preoccupi signora Baccaredda. –
Che strano effetto, sentirla chiamare con il suo cognome, che poi era anche il mio di cognome. Mio padre non lo conobbi mai. A lei, tutti la chiamavano signora Teresa, non ricordo d’avere mai sentito qualcuno chiamarla diversamente.
Per me era stato sempre il contrario. Tranne i pochi parenti e i rari amici, ai quali permettevo di chiamarmi Valentino, tutto il mondo mi conosceva solo grazie al mio cognome: Baccaredda.
Baccaredda boy, il mio soprannome di quando ero un giovane scatenato, con l’obiettivo di diventare un pezzo da novanta della mala nazionale.
Sto andando in gita premio, sul furgone delle onoranze funebri. Il coperchio della cassa scricchiola paurosamente, sballottato dalle ruote che rullano sul pavé del centro storico. Le quattro viti che lo assicurano, non sigillano completamente il feretro. Un filo di luce entra dalla sottile fessura, rischiarando il tessuto candido. Posso udire e guardare, oltre la lamiera brunita del carrozzone, tutto ciò che sfila attorno al mio passaggio. Qualcuno si fa il segno della croce, altri abbassano lo sguardo. C’è chi si porta una mano sui coglioni o tocca le ringhiere di ferro che separano dall’acqua.
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