No. Non puoi. Non ho più il cuore né lo stomaco. Mi hanno svuotato e riempito di paglia e segatura. Scommetto che mi hai già appeso alla parete del tuo studio, Dio del cielo onnipotente, non è così? Sai che ti dico: ti maledico! Ho mentito, prima. Avrei continuato a vivere come cazzo mi pareva e i soldi li avrei tenuti. Sono miei, e non mi pento di nulla.

Quanto tempo è passato? Dove mi portano? Sto facendo più giri io da morto che la merda di un intero condominio nei tubi di scarico. Altro che eterno riposo.

Mia madre! Povera madre mia, quanto ti ho fatto soffrire. Sei stanca e ingobbita, dentro al cappottino che ti regalai l’inverno passato. Ti piaceva tanto, avevi gli occhi lucidi quando te lo portai a casa. Adesso non ne hai più di lacrime, te le ho prosciugate tutte, goccia dopo goccia, carcere su carcere, rapine e sparatorie. Le ultime le hai spese alcune settimane fa: quando ti trovai ad aspettarmi fuori dal penitenziario, assieme a mia figlia e Lara. Lara non è mia moglie, e non è la madre di mia figlia. Lara è una fica stratosferica. Stiamo insieme da un paio d’anni e... stavamo insieme, io sono morto!

A dire il vero siamo stati assieme non più di qualche mese, in tutto. Gli ultimi quattordici li ho trascorsi in galera, a causa del fattaccio. Promisi a Lara un futuro di ricchezza. Stavo per riuscirci, ancora poco e avrei mantenuto l’impegno.

Io, Miran, Vladimir e mio cugino Sante, assaltammo un furgone porta valori. Lo bloccammo con un bulldozer, scatenando una tempesta di piombo, sulla serenissima, all’altezza di Grisignano.

Progettai il colpo per mesi, nei minimi particolari. Le dritte di un dipendente della società di security, incaricata della scorta, si rivelarono precise e utili. Fu il mio talento a fare il resto. Grazie al mio genio e alla fame nelle ossa degli altri tre complici, andò tutto come stabilito: rapidi, spietati, vincenti.

Quindici milioni di euro. Una tombola! Tre e mezzo a testa, tolto il milione dovuto alla talpa. Questo era quanto spettava a quel figlio di puttana di Omero Gastaldello; guardia giurata della Polservice di Abano terme. Facemmo i conti senza l’oste della questura.

Due settimane dopo la rapina, alla polizia furono sufficienti tre ore d’interrogatorio, allegro ma non troppo, e Omero crollò come un finocchio in astinenza di uccelli.

Se la cantò alla grande, consegnando i nostri culi nudi e indifesi alla sodomia della giustizia, senza neppure il conforto della vaselina. Così ci arrestarono tutti; meglio, mi arrestarono. Mio cugino Sante cercò di scappare a una pattuglia che lo intercettò sulla tangenziale di Venezia. Stava andando a trovare la puttana di turno. Era strafatto di bamba e armato come un tupamaro. Si schiantò con la sua Bmw contro un Leccio tronfio e grande come una villa del Palladio, a lato della carreggiata. Morto!

Miran e Vladi erano due teste calde, due serbi cazzuti e figli di troia. Avevano pelo sullo stomaco quanta bastava e non comprendevano il significato della parola rimorso. Quei due ci scatarravano, sulla compassione dovuta al loro prossimo. Immaginavo che in una situazione del genere avrebbero venduto cara la pelle. E così fecero. Ne stesero un paio, di pagliacci in divisa, prima di essere ammazzati come cani, quando una fottuta legione di sbirri mascherati irruppe nell’appartamento di Padova nel quale custodivano la santabarbara della banda. Morti! Come Sante, morti come il sottoscritto.

Quel gran pezzo di merda del commissario Argenti non ci diede respiro. Ci braccò senza pietà, finché ci stanò tutti. Io lo inquadrai subito, quel fetente, non era uomo da mollare l’osso facilmente. Me lo giurò, nell’ufficio matricola del carcere, prima che mi rilasciassero: “Non finisce qui”. In quell’occasione tentò in tutti i modi di opporsi alla mia scarcerazione, mi provocò sino agli insulti contro mia madre, sperando che io reagissi. Non lo feci, me ne andai sorridendo, mentre sbavava odio sulla mia schiena. Mi stava col fiato sul collo da quindici anni, tentando in ogni modo di piegarmi. Non ci riuscì mai: io ero più duro di lui.

Rammento ancora la sua faccia da cazzo slavato, ridente e soddisfatta, quando un anno prima mi mise le manette ai polsi, mentre ero ancora sdraiato sul letto di casa mia.