Istruzioni per l'uso: La natura particolare della rubrica, interessata all’esplorazione più che alla suggestione, ne determinerà un taglio volutamente esplicito nei confronti delle trame parallele, di cui spesso verranno rivelate sequenze chiave anche a scapito di coloro che non conoscono ancora le pellicole in questione.
Dove trovare il confine lungo il quale passa lo spettro dell’identità, con la sua gamma multiforme di colori? Nella dicotomia tra un sé e l’altro, o nell’attraversamento? Una storia nasce spesso da uno scontro fra corpi, per poi rivelarsi in opposizioni che si frantumano o si incontrano, generando il concetto chiave attorno a cui ruota la poetica che l’autore ha reso carne negli attori. A volte, questo scontro/incontro viene messo in atto anche tramite una differenza linguistica. In un universo ormai indifferenziato qual è quello del cinema hongkonghese post-handover, dove le recitazioni in cantonese (lingua locale ed espressione dell’identità altra dell’isola) o in mandarino (lingua del “nuovo” dominatore, succeduto agli inglesi dopo ottant’anni di “prestito”) diventano intercambiabili, senza che venga data una valenza culturale o simbolica a queste scelte, due film si distinguono in tal senso come opere che restituiscono alla scissione linguistica, e ai corpi che la rappresentano, una sua dimensione semantica: Dumplings (2004) di Fruit Chan e MingMing (2007) di Susie Au.
Dumplings è un elegante lungometraggio ricavato da un episodio dallo stesso titolo diretto in precedenza dal regista e inserito nel collettivo Three…Extremes. La storia sembrerebbe simile a quella già esposta nel film a episodi, ma in realtà molti particolari (il più evidente è il finale, dotato di maggiore forza e coerenza) rendono la seconda e più ampia versione preferibile alla prima. Fruit Chan mette in scena una contrapposizione fra corpi che è innanzitutto uno scontro culturale e linguistico: da una parte, c’è Mei (Bai Ling), rozza e volgare donna della Mainland dedita agli aborti clandestini e ad altre pratiche non ortodosse di “medicina” assimilabili alla stregoneria; dall’altra, Li Tai (Miriam Yeung), elegante e raffinata attrice di Hong Kong tradita dal marito (Leung Ka-fai). La prima veste pantaloni attilati di leopardo e magliette di fortuna, ha occhi piccoli, spesso chiusi a fessura, che tradiscono un misto di disincanto nei confronti della vita e un malcelato egocentrismo. La seconda indossa abiti elegantissimi in tinta unita, il bianco esangue della morte o il rosso canonico della bellezza vista in chiave cinese. I suoi occhi rotondi, i modi e i gesti raggelati sono sempre eterei e distanti, quasi mai la vediamo lasciarsi sfuggire un’emozione, se non nei momenti di crisi estrema. Last but not least, Mei parla mandarino, la signora Li si esprime invece in cantonese. Negli anni 2000 l’alternanza delle due lingue in uno stesso film è per lo più dovuta a esigenze di produzione e non a dicotomie previste dalla storia, ma Fruit Chan decide volutamente di soffermarsi sulle potenzialità di un tale strumento, che molti registi riducono a mero elemento decorativo o accidentale, restituendogli un valore di differenza culturale e semantica che se da un lato pone Hong Kong come simbolo di sofisticata agiatezza e apparente perfezione (evidente nei già citati abiti e modi di Li Tai), dall’altro lascia insinuare in quest’illusoria superficie inattaccabile la bestiale e atavica potenza della Cina, forte delle sue credenze popolari che seducono chi ha bisogno di trasformare un’apparenza di perfezione in concreta certezza. Questa certezza giunge dalle mani della scaltra Mei sotto forma di ravioli (i dumplings del titolo, appunto): la sua personale ricetta infallibile permetterà alla signora Li di ritrovare la giovinezza e la beltà perdute e riconquistare così il cuore del marito. Mangiandone a volontà lo speciale ripieno, puro e nutriente, Li Tai “si sentirà una donna nuova”. La riappropriazione della bellezza deve dunque passare attraverso la voracità e il possesso della carne, arrivando a toccare la nudità più vera e disturbante dell’essere umano. L’opposizione fra i due mondi, quello di Mei e quello di Li Tai, si esplicita anche sul piano dei nomi: “mei”, bella, è appunto un indicatore di bellezza, banale e sbrigativo forse, ma innegabile ed essenzialista (“Il mio corpo è verità”, dirà infatti l’ostetrica clandestina riferendosi all’arrestarsi del tempo sulla propria carne grazie al cibo di cui si nutre), in opposto all’aggiunta sofisticazione dell’appellativo “tai”, moglie, che etichetta l’attrice Li. Il film è appunto una lenta discesa verso la semplificazione, uno spogliarsi delle sovrastrutture date dalla cultura per abbracciare coscientemente le pulsioni più bestiali e “naturali”. In altre parole, rinunciare alla propria diversità insulare per accogliere senza riserve la grande patria cinese indifferenziata. “Carne e organi umani possono curare le malattie,” spiega Mei ad un signor Li apparentemente inorridito ma affascinato, accorso nel suo nascondiglio dopo aver scoperto la vera natura del cambiamento in atto nel corpo della moglie. Ma, aggiunge Mei infondendo nel cuore di lui tutto il desiderio di cui è capace, “ciascuno di noi è dentro ognuno.” Lo stesso atto sessuale che i due consumano poco dopo sul tavolo in maniera cruda e violenta è in potenza un mangiarsi a vicenda. Quello messo in piedi da Mei nei confronti della signora Li come cliente prima e del signor Li come amante dopo è a tutti gli effetti un atto di sarcofagia, più precisamente, un cannibalismo che è anche e soprattutto un’appropriazione indebita di Hong Kong e della sua fragile ed elegante peculiarità cosmopolita da parte del rozzo e imbattibile colosso cinese. Tant’è che alla fine, anche se Mei tornerà nella Cina rurale per scampare alla polizia che la cerca per omicidio, la bestialità da lei inoculata in Li Tai prenderà il sopravvento su tutto, spazzando via ogni traccia di raffinatezza e cultura dall’universo dell’attrice.
Che in Cina il cannibalismo fosse visto tradizionalmente come una pratica “naturale”, e non come qualcosa di moralmente inaccettabile come avviene in Occidente, si può evincere da diverse fonti. Famoso è ad esempio il racconto di Lu Xun, Diario di un pazzo (1918), in cui viene detto che “nei tempi antichi, mangiare carne umana era un fatto frequente”, o ancora, “in un libro delle erbe di Li Shizhen c’è scritto esplicitamente che si può cuocere e mangiare carne umana e che ci si può scambiare figli per mangiarli”, e infine: “alcuni gli avevano strappato il cuore e il fegato, li avevano fritti nell’olio e se li erano mangiati: era un modo per diventare più coraggiosi.”
Tutt’altro che uniforme appare la storia di MingMing, debutto cinematografico di Susie Au. A tratti confuso e privo della perfezione formale di Dumplings, il film contiene tuttavia delle riflessioni illuminanti sull’identità come dicotomia e sdoppiamento fra corpi, a partire dallo stesso titolo.
A questo punto del film la regista attua quasi un gioco del rovescio, per cui Nana appare per la prima volta determinata (che nel suo caso vuol dire unicamente non cercare più D.) e parallelamente Ming Ming si sottrae allo sguardo dello spettatore assumendo dei tratti quasi capricciosi: cos’altro può spingerla ad aprire la scatola di Cat se non la pura curiosità? Ma il suo gesto apparentemente innocuo determina quel che accade dopo. La scoperta della verità sul conto di D. – nei pub di Shanghai per Nana e dentro la scatola per Ming Ming – fa sì che lo specchio dell’altra scompaia dalla vita di ciascuna delle due donne. Ma lo scollamento vero e proprio si attua solo nel momento in cui Ming Ming scopre il contenuto della scatola: per buffa combinazione, è la traccia di un’altra donna, ormai assente e trasformata in un’entità insospettabile, ad attuare la separazione netta fra Ming Ming e Nana come due entità indipendenti l’una dall’altra. Questa separazione avviene attraverso le parole di un’ulteriore donna, che donna in realtà non è più e che riassume in sé la dicotomia fra essere e non essere (o non essere più/ancora), specchio e alterità nello specchio: Cat, androgino e zoppicante, era in passato una donna e una madre. La chiave di tutto il film e di tutte le traiettorie seguite dai personaggi è racchiusa nelle parole di questa donna assente sostituita e nascosta nella pelle di un uomo. E sono parole pronunciate in mandarino, idioma della nuda verità e del disvelamento, lingua “madre” nel senso letterale del termine. L’identità torna dunque a mostrarsi dietro lo specchio che non oppone più lo stesso corpo di donna scisso in due personalità differenti, Ming Ming e Nana, ma nella dicotomia Zhang Haihua/Cat, nell’essere non-uno, più che una dualità. Uno scontro nel quale il maschile vince nel corpo ma è il femminile a trionfare nella parola, che può essere svelata soltanto in mandarino e soltanto fra le due donne che comprendono questa lingua e che rimangono le uniche vere depositarie e conoscitrici della verità. Haihua/Cat, infatti, rivela il proprio segreto soltanto a Ming Ming, prima a distanza, via lettera e come donna proveniente dal passato, poi di persona, a voce e come uomo che esiste nel presente. Gli altri personaggi, cantonesi in eterna fluttuazione nell’isola passata da un dominatore all’altro e poi sperduti dentro una Mainland incomprensibile avvolta dalla pioggia, si rivelano essere delle scatole vuote, come piccoli pezzi illusoriamente autonomi sopra un’immensa scacchiera il cui vero disegno è noto soltanto alla grande Cina.
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