Toy Story 3 – La grande fuga di Lee Unkrich, conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che solo a film così fatti (in CG per intenderci…) è concesso di muoversi a loro piacimento lungo i più generi più svariati senza che nulla si storca d’improvviso inceppando per un istante almeno quel meccanismo perfetto spesso all’opera nei film targati Pixar, composto per metà da tecnica sempre più sopraffina, e per l’altra metà da una creatività spinta ai massimi livelli.
Se il primo episodio (Toy Story – Il mondo dei giocattoli, 1996) esplorava lo scosceso passaggio tra mondo dei sogni e mondo reale, lo scavalcamento del confine tra l’onnipotenza e il riconoscimento dei propri limiti (Buzz, una volta per tutte, non sei un space-ranger e tanto meno sei in grado di volare…), questo terzo riprende per esplorare in una diversa prospettiva quello che era stato il tema cardine del secondo episodio (Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa, 1999), e cioè il “prendersi cura degli altri”.
Stavolta toccherà a Woody sollevare dalle ambasce la combriccola di amici finiti in un asilo lager causa un equivoco dovuto alla partenza di Andy (il bambino del primo episodio possessore dei giocattoli che lasciati a loro stessi prendono vita…) per il college, così come nel secondo capitolo erano stati gli altri giocattoli a salvare Woody dal collezionista folle.
“Prendersi cura dell’altro”, “fratellanza”, “reciprocità”, “il crescere”, tanto sul piano anagrafico che su quello psicologico con tutti gli annessi e connessi…, questi solo alcuni dei temi del film, scandagliati attraverso una griglia di generi, dal film “escapista” alla commedia sofisticata, al thriller venato di sfumature horror (il bambolotto che obbedisce agli ordini del perfido Lotso, un orso di peluche dall’odore di fragola, un mix tra uno zombie e Chucky, la bambola assassina), il tutto calato in un mondo a misura di essere umano con tutto ciò che ne segue per un gruppo di giocattoli che per quanto intelligenti e dotati di un coraggio da leone sono pur sempre alti una manciata di centimetri, trovata tutt’altro che nuova ma che riutilizzata in modo acconcio dimostra come non esistono distanze quando il volere di uno coincide con quello di tutti e viceversa (attenzione allo script di Michael Arndt, premio Oscar per Little Miss Sunshine).
Scene madri a bizzeffe che è difficile tenerne conto, ma una in particolare va segnalata per come riesce a “segare” letteralmente in due lo spettatore, quella dove Woody e i suoi amici si trovano nella pancia di un inceneritore ad un passo dalle fiamme. Be’, liberi di non crederci, ma la sensazione di essere delle anime divise in due è quanto mai netta: da un lato, spettatori svezzati a dovere conosciamo il last minute rescue (perlomeno da quando D.W. Griffith lo ha inventato…) e quindi siamo certi che la piega degli eventi sarà diversa da come si prospetta, epperò proprio non ce la facciamo a non rimanere coinvolti nel senso di smarrimento e di angoscia che vivono i protagonisti ad un passo dalla fine.
Tra le new entry più efficaci segnaliamo non la coppia Barbie/Ken, piuttosto quella di Chuckles, pagliaccio triste per colpa di Lotso.
L’unico rischio, ma che vale la pena di correre, è quello di rimanere schiacciati dalla ricchezza eccessiva della storia, dagli snodi, dalle situazioni sempre più rocambolesche e dalle conclusioni sempre impeccabili.
D’altronde valle a trovare ‘ste cose in un qualsiasi altro film…
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