I nomi, più spesso i cognomi, sono talvolta appellativi “di potenza” o “di destino”. King è il Re, l’Evangelisti è il praedicator fidei che si aggira fra le epoche ad annunciare “novelle” o “verità assolute”, i furori di John Blackburn (autore tanto misconosciuto quanto da riscoprire) ardono di una fiamma indubitabilmente “nera”, la Cornwell dimostra sicuramente un ottimo rapporto con il “grano”, inteso anche all’italiana. In parte è anche un giochino scemo, di cui qualche chiosatore ha effettuato alcune incursioni anche al Maurizio Costanzo Show. Ma quella scheggia che sfugge alla grulleria solleva interrogativi e semina dubbi. Soprattutto quando, in un film che s’intitola Manhunter, un personaggio di contorno e, a prima e sbrigativa vista, neppure così importante, chiamasi Lecktor. Ohibò, ma nel libro che avevamo letto un bel po’ di tempo prima non si chiamava “Lecter”? Questioni di copyright, chi lo sa… E poi, chissenefrega. Ma allora, nel 1985, chi immaginava che Lecter sarebbe divenuto il James Bond dello psycho-thriller contemporaneo?
Partiamo dall’inizio. Da Thomas Harris, lo scrittore più avaro della storia. Conoscerete senza dubbio i pochi dettagli che di lui sono conosciuti e che qui non sono fondamentali. Harris parte negli anni Settanta con un romanzo, a quei tempi modaiolo e paradossalmente profetico, Black Sunday, probabilmente più conosciuto per lo spettacolare e teso film che ne trasse John Frankenheimer nel 1977, lontano comunque mille anni dal mondo cupo e sanguinario dei serial killer. Un mondo che, va sottolineato soprattutto per i troppi che sono convinti che Harris sia uno dei “fondatori” del filone, era già all’epoca abbondantemente frequentato. Dal cinema in primo luogo, soprattutto con i “giallos” all’italiana di Argento & C., ma anche dalla letteratura di “genere” che, angustiata nei confini del ghetto, non può far altro che spianare in silenzio la strada agli Harris venturi (un po’ com’è accaduto per certi autori horror, rimossi e negletti, da Charles Beaumont a Richard Matheson, senza i quali King non potrebbe esistere come tale). Eppure, senza togliere a Harris i suoi meriti, qualche nome che si cimenta con le oscure stanze della follia degli psicopatici stermina-famiglie ben prima del 1981, anno della comparsa in America (in Italia tre anni dopo) del libro Red Dragon, andrebbe pur citato. Ma prima, per i pochissimi che magari non conoscono il plot di Red Dragon, ecco lo scarno e puntuale riassunto del Mereghetti, anche per dare una logica alle nostre successive considerazioni1:
“Dovendo indagare su un serial killer che fa stragi di famiglie, l’agente Will Graham adotta metodi da Actor’s Studio e cerca di pensare con la testa del mostro.
Memorie rinfrescate. Procediamo. Si diceva, appunto, degli autori in anticipo su Harris. Tanto in letteratura che al cinema. Da quelli, appunto, di “genere”, a frequentazioni sporadiche e isolate, ma non meno significative. Dai numerosi serial killer del grande Robert Bloch che con i mass murderers ha affollato la sua versatile narrativa sin dal lontano 1947 (La sciarpa), al Dean Koontz di Visioni di morte (1976), dove la protagonista è telepaticamente legata all’assassino di turno; dal William Goldman di Magic (1977), dove uno psicopatico ventriloquo si sdoppia schizofrenicamente nel suo inerte e minaccioso pupazzo, a L’inquietante signora del piano di sopra di Constance Rauch (1975), in cui la “signora” in questione è un serial killer travestito da donna per un finale che precorre “alla rovescia” quello, giustamente mitico, di La casa dalle finestre che ridono del nostro Pupi Avati; dal Jeffrey Caine di The Cold Room (1976) a La follia di Mrs. Barthelme di Susan Claudia, sempre dello stesso anno. E poi il cinema, sterminata fucina di stimoli e spunti da approfondire. Da quel Leatherface, inventato da Tobe Hooper, che all’inizio degli anni Settanta fornisce un primo elemento estetico con cui caratterizzare la fisionomia del cannibale di Harris, ai primi episodi degli indistruttibili Michael Myers e Jason Voorhees. Da due esempi canonici di personaggi sintonizzati con l’assassino “cacciato” in Occhi di Laura Mars di Irvin Kershner (ma scritto da John Carpenter) del 1978 e in Cruising di William Friedkin del 1980.
C’è da ricordare che, nel frattempo, appunto in quei sette anni, la “musica che gira intorno” a proposito di serial killer è divenuta una ininterrotta lagna monotonale, ai limiti dell’insopportabile. Film, telefilm, libri, dibattiti: ci sono più assassini di massa nella fiction che nella realtà (per quanto la realtà americana meriti su questo fronte un approfondimento a parte…) e il serial killer diventa il topos mitologico con cui condire mille salse, non poche tra le quali dal sapore disarmonico.
Di tutto questo clima Harris s’impadronisce con astuzia. E il sistema produttivo che lo circonda fa il resto, operando il miracolo. Con un regista raffinato quale Jonathan Demme e un cast di all stars di richiamo planetario che vede nei nomi collaudatissimi di Jodie Foster e Antony Hopkins le maschere del Bene e del Male che dovranno confrontarsi nel “thriller del secolo”, il libro diventa film, non più oggetto misterioso per cinefili, ma per tutte le platee, e per la prima volta un prodotto ai margini dell’horror partecipa alla corsa degli Oscar, mietendo allori.
Peraltro in tale delirio mi ritrovo in ottima compagnia. Ecco che scrive al proposito Luca Pacilio3:
“Il libro Il silenzio degli innocenti dimostrava che la figura dello psichiatra cannibale, il Camus del massacro, funzionava perfettamente come deuteragonista, figura secondaria ma cardinale, descritta per ellissi, enigmatica e magistralmente accennata. In Hannibal questo lavoro di fino viene smantellato brutalmente: Harris, per forza di soldi, promuove Lecter protagonista e impone brutalmente al lettore un tour de force di spiegazioni e descrizioni, andando addirittura a scavare (tabù!) nell'infanzia del folle psichiatra, alla ricerca delle ragioni della sua mania antropofaga, umanizzandolo e svuotandolo di ogni diabolica attrattiva. Il risultato: un disastro.”
Non entro nel merito. Hannibal, comunque, è stato un successo. Anche il film, per quanto il più strampalato della notevole filmografia di Ridley Scott, ha onorato le leggi del box office. Ma di sicuro il Lecktor, fuori dalle sbarre, ha perso funzionalità, carisma. Ed è incredibilmente meno terrorizzante. A questo punto bisogna ridisegnare la storia. Tornare alle origini, richiamare tutti con il loro vero (vero?) nome. Lecter, Dolarhyde, Red Dragon. E nasce un anodino prodotto di serie con un Hannibal più vecchio che dovrebbe essere più giovane, che gigioneggia a vuoto più che mai e che si comporta comunque ancora bene al botteghino. E rende grande l’indimenticato film di Michael Mann.
“Come in ogni altro mio film, esiste una continua interazione tra la realtà e l’incubo. Un incessante e continuo movimento su e giù. Molti miei personaggi vivono un incubo reale, a occhi aperti. E' il caso di Peter Strauss in The Jericho Mile e del ladro in Violent Streets. Tutti e due tentano di passare attraverso un sogno, cosa che è impossibile. Altri miei personaggi sono calati dentro un incubo che è parte del fantastico. Per loro la soluzione consiste nel tornare alla realtà. Come Scott Glenn ne La fortezza, Will Graham, il poliziotto di Manhunter, si avvicina sempre molto alla follia e all’incubo. Trovo noioso trattare gli avvenimenti realisticamente. Io tento di concettualizzarli. Inclusi i tormenti della mente umana. Mi sembra di avere espresso le fantasie in un modo espressionista, il che mi porta sempre verso un versante fantastico. Manhunter è tratto dalla più originale e affascinante detective story che abbia mai letto, ma io sarei stato incapace di trattare realisticamente, alla Harris, la vicenda. Il farlo ricalcando pari pari il libro mi avrebbe annoiato a morte.
Così Mann in un’intervista a Mad Movies, risalente agli anni Ottanta4. Ed ecco cosa scrive al proposito Alessandro Borri nella sua ottima monografia dedicata a Mann5:
“Il terzo vertice del triangolo filmico in Manhunter (i primi due sono Graham e Dollarhyde) è il dottor Lecktor, lo psichiatra eretico le cui teorie blasfeme sono ancora più pericolose delle azioni delittuose. La cella in cui viene confinato è la versione legale della fortezza sui Carpazi di The Keep, il luogo dove la società civile incatena il mostro illudendosi di neutralizzarne l’influenza, che invece si sprigiona su Graham e Dollarhyde, rivelandosi il motore occulto dell’azione. L’incontro tra Graham e Lecktor attraverso le sbarre scatena la dissociazione del detective: risucchiato indietro al primo, traumatico incontro col dottore; disgustato dal sospetto, insinuatogli dall’altro ma già presente in lui, dalla loro eguaglianza nel segno del gusto omicida; devastato dal doppio transfert nelle fantasie di Dente di Fata e Lecktor”.
Naturalmente nulla di ciò in Red Dragon di Ratner, che “dovrebbe” essere la puntuale trascrizione filmica de Il delitto della terza luna. La funzione sciamanica del “lettore” oltre le sbarre resta una prerogativa di Manhunter, che ha deviato dal testo di Harris per entrare più agevolmente, attraverso un nuovo “battesimo” dei personaggi-chiave, nelle loro menti. Tutto ciò ricorda curiosamente, ma anche significativamente, il rapporto tra Kubrick e King. Il primo ha saputo entrare nello Shining meglio del suo detentore ufficiale, e la versione “ufficiale” di Una splendida festa di morte, diretta da Mick Garris e prodotta nonché sceneggiata dallo stesso King, lo ha dimostrato a chiunque. Nell’Anima Mundi dell’arte, questi fenomeni non sono così rari. Hitchcock s’impadronì così bene di un romanzo di Robert Bloch, uscito in prima edizione italiana nel 1959 con il titolo Il passato che urla, da essere universalmente ricordato come il detentore dell’atto primordiale: il film Psycho, che ha dato via all’inesauribile campionario dei serial killer. Ancora Hitchcock, genio mai troppo lodato, si servì di un raccontino, a suo modo quasi minimalista, di Daphne Du Maurier per dar vita sullo schermo all’apocalisse pennuta de Gli uccelli, che ha scritto le regole sintattiche del thriller moderno. E si potrebbe andare ancora avanti, ma finiremmo inevitabilmente fuori tema.
Si potrebbe concludere con le parole di uno dei più acuti studiosi del mondo sciamanico, l’antropologo Holger Kailvet6:
“Non è il nostro modo quotidiano di pensare, condizionato dalle emozioni o da associazioni improvvise, a rendere concreto il corso distratto della mente.
Forse Harris, se ne fosse stato consapevole, non avrebbe distrutto le caratteristiche “magiche” di Lecter, il suo uomo-medicina, con il posticcio Hannibal. Ma pecunia non olet, inutile ricamarci. E allora spazio al tabù temuto da Luca Pacilio. Ancora una volta è Dino De Laurentiis che impone il suo punto di vista: ci sta ancora, tanto al cinema che in letteratura, una carta da giocare nello svelamento assoluto del pianeta Hannibal. Così all’inizio del 2007 il mondo viene invaso dall'operazione congiunta libro + film, Hannibal Rising (Hannibal Lecter - Le origini del male), ovvero il temuto prequel che va a scavare nei tabù dell’infanzia e dell’adolescenza del futuro sciamano, grande burattinaio delle forze dell’oscurità che addenta la carne umana per trarne auspici sul futuro e manipolare le menti. Tanto nel libro che nel film speculare diretto da Peter Webber, le metafisica potenza di Mann è ridotta a un banale trauma da vendetta, dietro il quale il giovanissimo Hannibal diventa serialcannibal-killer per vendicare il brutale omicidio della sorellina, eliminata e “mangiata” in tempo di guerra da una banda di sciacalli nazisti. Forse troppo poco, e magari troppo ovvio. Ma la replicanza del Mito pretende le sue vittime. E allora Hannibal dovrebbe stare attento a non incorrere nel paradosso di un certo personaggio kinghiano, che in preda alla fame iniziò a mangiare sé stesso7.
----------------
1 Paolo Mereghetti, Dizionario dei film, Baldini & Castoldi, Milano, 1993.
2 Come perfetti esempi cinematografici di questa tendenza, basterebbe ricordare il maniaco autostoppista di The Hitcher-La lunga strada della paura di Robert Harmon o il Demone di Sabbia di Demoniaca di Richard Stanley, quasi delle pure metafore sebbene personaggi in carne e ossa. Su tutti costoro, comunque, si allunga la straordinaria ombra del Predicatore di The Night of the Hunter, libro di Davis Grubb profetico e straordinario tanto quanto il film che Charles Laughton ne trasse nel ’55, il mitico La morte corre sul fiume.
3 Luca Pacilio, Film(s) vs. Book(s), www.spietati.it
4 Michael Mann interviewed in Mad Movies, www.geocities.com/sunset strip
5 Alessandro Borri, Michael Mann, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2000.
6 Horger Kalweit, Guaritori, sciamani e stregoni, Ubaldini, Roma, 1996.
7 Il racconto è L'arte di sopravvivere, pubblicato in “Scheletri”, antologia del 1989.
Il presente articolo è uscito anche sul sito della Gargoyle Books
http://www.gargoylebooks.it/site/sites/default/files/Lecktor%20vs%20Lecter.pdf
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID