Come abbiamo visto nei precedenti articoli, la vera identità dell’uomo che si firmò William Shakespeare rimane avvolta nel dubbio e nella totale mancanza di dati certi: si può quindi immaginare i problemi che nascano nella datazione ed attribuzione delle sue opere.
Fino ad un decennio dopo la morte dell’uomo che portava il nome di Shakespeare delle opere ad egli attribuite giravano solo copie non autorizzate, ricavate dai copioni di scena manoscritti di proprietà dei teatri che avevano presentato dette opere. Nel 1623 vengono finalmente raccolte e pubblicate ufficialmente - a cura di John Heminge e Henry Condell - molte delle principali opere shakespeariane e altre venti fino ad allora rimaste inedite: questa raccolta è l’inizio della fama internazionale dell’autore. Siamo però sicuri che tutte le opere comprese in questa edizione siano attribuibili al grande Bardo? E ancora, siamo sicuri che quelle non inserite non possano essere comunque riconducibili a lui? Ovviamente no, visto che già all’epoca i curatori di quella e di altre opere non avevano la benché minima idea della datazione precisa: nelle introduzioni a queste, ognuno di loro ipotizzava una possibile datazione.
«Non ho trovato alcuna edizione precedente [dell’Amleto] se non una del 1604 - scrive per esempio George Steevens in “The Plays of William Shakespeare” (1778) - sebbene debba essere stata messa in scena prima di quella data, come ho potuto constatare vedendo una copia dell’edizione Speght di Chaucer appartenuta ufficialmente al dottor Gabriel Harvey in cui egli, scrivendo a mano, citò l’Hamlet come una pièce teatrale che aveva visto nel 1598». Come si può risalire ad una datazione precisa con queste informazioni?
William Shakespeare, o chi si nascose dietro quel nome, rimane comunque il più grande drammaturgo della lingua inglese e il mistero che lo avvolge, in fondo, aumenta il suo fascino. Se un giorno uscissero fuori delle lettere scritte di suo pugno ed addirittura un intero lavoro teatrale manoscritto che si credeva perso? Un’ipotesi esplosiva è vero... E se quell’opera manoscritta fosse addirittura una mai conosciuta? Non sarebbe una scoperta che giustificherebbe qualche omicidio?
Stiamo parlando ovviamente dello spunto di un romanzo giallo, “Il manoscritto perduto” (Love Lies Bleeding) del 1948 di Edmund Crispin, edito da I Classici del Giallo Mondadori n. 820 (1998) e 1163 (2007).
In questo, la causa di diversi omicidi che avvengono nel college britannico di Castrevenford è il ritrovamento - e la relativa brama di possesso - di “Pene d’amore conquistate”, evidente seguito del celebre “Pene d’amore perdute”, manoscritto a firma niente meno di William Shakespeare.
«Stagge pareva più perplesso che sorpreso. “Un manoscritto, signore? Una cosa di valore?” “Di enorme valore. Almeno un milione di sterline, direi.” “Un milione?” sbottò a ridere Stagge, chiaramente incredulo. “Sta scherzando, signore.” “Tutt’altro. Sono più che serio. E se ci sono anche delle lettere, la somma potrebbe avvicinarsi ai due milioni.”»
È un po’ triste valutare in denaro una scoperta di questo genere, ma visto che i lettori non sono tutti bibliofili, l’autore doveva pur far capire che stava parlando di un ritrovamento “che scotta”, di qualcosa cioè che giustificasse un omicidio: la bibliofilia (più di un autore l’ha dimostrato) è un movente più che sufficiente, ma evidentemente non abbastanza per il lettore medio di gialli...
Ma veniamo allo pseudobiblion del romanzo di Crispin, il “Pene d’amore conquisate”. «Nessuno l’ha mai letta - spiega il professor Gervase Fen, protagonista del romanzo - né ne ha mai sentito parlare dal 1598, quando Shakespeare aveva trentaquattro anni.»
Ma come fa un’opera del genere a scomparire nel nulla? «Sono scomparse un mucchio di commedie elisabettiane... - continua il professore - “L’isola dei cani” di Johnson e Nash, per esempio. E se non fosse stato per un caso, non avremmo mai saputo dell’esistenza di “Pene d’amore conquistate”. [...] Nel 1598 uno studente di nome Francis Meres pubblicò il libro “Palladis Tamia”, in cui vi era un capitolo intitolato: “Un discorso comparativo tra i nostri poeti inglesi e i poeti greci, latini e francesi”. In quel capitolo si parla di Shakespeare, che l’autore idolatrava, e viene fornita una lista delle sue opere. Forse la lista non è completa, ma non è questo il punto. “Per il genere commedia” - cita Fen - “testimoniano opere come I gentiluomini di Verona, La commedia degli equivoci, Pene d’amore perdute, Pene d’amore conquistate, Sogno di una notte di mezza estate, Il mercante di Venezia. E quindi esisteva, capisce!»
Va specificato che il “Palladis Tamia” di Francis Meres non solo esiste realmente, ma è addirittura consultabile liberamente in rete. Così come esiste la citazione di “Loue labours wonne” (Pene d’amore conquistate) come opera shakespeariana: allora il testo di questo romanzo non è affatto uno pseudobiblion? Non esattamente, perché, come continua a spiegare Fen, «Il fatto che Meres non citi Molto rumore per nulla, che tutti ritengono sia stata scritta prima del 1598, ha portato alcuni critici a pensare che Molto rumore sia solo un altro titolo di Pene d’amore conquistate. Ma questa è solo un’ipotesi. In effetti, nessuno lo sa con certezza.»
Come si vede, tutto ciò che riguarda Shakespeare è aleatorio. Finché però non verrà trovato un “vero” manoscritto che si intitoli “Love Labours Won”, la creazione letteraria di Crispin rimarrà uno pseudobiblion a tutti gli effetti.
Come ogni storia che ruoti ad un libro che non dovrebbe esistere, soprattutto un libro di straordinario valore, il finale non può che essere un ritorno alla “realtà”, ad una realtà cioè dove il libro non esiste! Crispin, come altri autori prima e dopo di lui, non può finire il suo romanzo con un “lieto fine”, con la comunità internazionale che saluta la scoperta di un’opera inedita di Shakespeare: quindi il manoscritto, come molti pseudobiblia prima di lui, è destinato a fare una brutta fine...
Ma forse la sua apparizione fugace non è stata vana. Il professor Fen, infatti, decide di portare a termine l’idea di scrivere un romanzo giallo... e perché non usare gli eventi di cui è stato testimone come trama?
«Oh, Gervase - si scalda il preside del college - se proprio devi scrivere un giallo, e fin troppi professori di college ne scrivono uno, a quanto pare, perché non usi gli eventi di questo fine settimana? [...] Lo immagino alla Simenon, con un bel po’ di psicologia per compiacere i critici con la puzza sotto il naso...» Visto che Edmund Crispin è lo pseudonimo di Robert Bruce Montgomery (1921-1978), professore di college britannico che affiancò l’insegnamento con la pubblicazione di romanzi gialli, si può capire in quale gioco letterario si stia finendo.
La conclusione è ancora più stuzzicante. Gervase Fen non è infatti entusiasta dell’idea di mettersi a scrivere, e così “Il manoscritto perduto” si chiude con la sua lapidaria affermazione: «Un manoscritto shakespeariano? Mio caro amico, nessuno potrebbe mai tirarci fuori un giallo da quello!»
Questo articolo ha qui bisogno di un post scriptum. È notizia dei primissimi mesi del 2010 della scoperta indiretta di un’opera shakespeariana considerata perduta... proprio come nel romanzo di Crispin, anche se finora non sembrano esserci stati omicidi intorno ad essa!
Nel 1613 la compagnia shakespeariana King’s Men mise in scena “The History of Cardenio”, basata su un episodio del Don Quixote di Cervantes e scritta a quattro mani dal nostro William e dal collaboratore John Fletcher. Un incendio fece perdere alla posterità questa pièce teatrale, ma un secolo dopo il drammaturgo Lewis Theobald annunciò di aver ritrovato il manoscritto (anzi, a quanto pare ne trovò tre versioni!): rielaborò il testo shakespeariano e ne trasse il dramma “Double Falsehood, or The Distrest Lovers” (Doppio inganno, o Gli amanti afflitti), andato in scena la prima volta nel 1727. Tutta la comunità letteraria si chiese (e si chiede) come mai Theobald abbia riscritto il testo del grande Bardo invece di pubblicare il manoscritto originale, il quale venne sempre tenuto segreto: c’era aria di frode letteraria, e il manoscritto shakespeariano posseduto da Theobald è sempre stato considerato un falso, semmai è esistito. (Noi, qui, potremmo anche annoverarlo fra gli pseudobiblia!)
Il 15 marzo del 2010, invece, lo studioso Brean Hammond, docente della Notthingham University, ha dichiarato che «la mano di Shakespeare si può riscontrare nel primo, nel secondo e probabilmente nelle prime due scene del terzo atto»: questo giustifica come mai la prestigiosa Collezione Arden delle opere shakespeariane, di cui Hammond è curatore, contenga ora anche “Double Falsehood”, che è quindi a tutti gli effetti da considerarsi rielaborazione di una pièce che il Bardo scrisse con Fletcher probabilmente nel 1613, un anno dopo cioè la traduzione in lingua inglese del Don Quixote di Cervantes. Siamo i soli a trovare quantomeno paradossale che quest’opera ritrovata attribuita a due autori controversi si intitoli “Doppio inganno”?
Su ciò che circonda Shakespeare e la sua opera la nebbia non accenna a diminuire, ma possiamo invece affermare che gli pseudobiblia non sono sempre e necessariamente... “libri falsi”.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID