Nikita Mikhalkov colpisce ancora, dritto al cuore del proprio Paese con il coraggio che ha sempre contraddistinto la sua visione registica: niente maschere, niente trucchi, tutto a volto scoperto. Stiamo parlando di “12” (2007), scritto, diretto e interpretato dal celebre autore di film come “Oci Ciornie”, “Urga” e “Il Sole ingannatore”, giusto per citare alcune tra le sue pellicole più premiate.

Il film - candidato al Premio Oscar come miglior film in lingua straniera nel 2008 - si rifà al lavoro teatrale “12 Angry Men” di Reginald Rose, autore che adattò poi il testo in sceneggiatura televisiva per l’episodio omonimo della serie “Studio One”, dal successo del quale tre anni dopo nacque la celebre pellicola “La parola ai giurati” (12 Angry Men, 1957), di Sidney Lumet con Henry Fonda nel ruolo protagonista. La storia riscosse talmente tanto successo che fioccarono remake anche in cinematografie straniere: dal tedesco “Die zwölf Geschworenen” (1963) al norvegese “Tolv edsvorne menn” (1982); dall’indiano “Ek Ruka Hua Faisla” (1986) al francese “Douze hommes en colère” (2010).

Con Mikhalkov, però, il testo parte come legal thriller ma diventa ritratto lucido e terribile della Russia moderna.

Alla fine di un processo i dodici giurati vengono chiusi in una stanza per emettere un verdetto che pare scontato. Un ufficiale dell’Armata Rossa è stato rapinato ed ucciso dal proprio figlio adottivo... un giovane ceceno: visto l’odio profondo che i russi nutrono nei confronti di questa etnia, il giudizio dei giurati pare scritto ben prima dell’inizio della seduta.

Uno di loro, però - un ex alcolizzato ora redento, interpretato da Sergej Makovetskij - è meno superficiale degli altri e comincia a far sorgere dei dubbi negli altri giurati: dapprima refrattari, gli altri uomini col passare delle ore si convincono sempre di più che il processo non è stato affatto convincente.

 

Fra le maglie della trama originale di Rose il regista e sceneggiatore russo (aiutato dagli sceneggiatori Aleksandr Novototsky e Vladimir Moiseyenko) immette elementi propri nella storia, come le storie personali dei singoli giurati che si discostano dall’originale statunitense.

La varia umanità dei giurati presenta un autista di taxi intollerante e razzista (Sergej Garmash) che chiama “selvaggi” tanto i ceceni quanto gli ebrei; un ebreo intellettuale (Valentin Gaft) che certo non è felice di certi epiteti, così come non lo è il chirurgo ceceno (Sergej Gazarov) che si considera russo a tutti gli effetti senza però per questo rinnegare il suo retaggio caucasico. Un rampollo di Harvard (Yuri Stoyanov) la cui famiglia possiede un canale televisivo modaiolo; un uomo di spettacolo con il cruccio di non esser mai preso sul serio, e via dicendo. Si arriva al silenzioso osservatore, il presidente della giuria interpretato da Mikhalkov stesso che prima ascolta ed osserva tutti gli altri, e poi interviene solo alla fine inserendo un elemento tanto nuovo quanto deflagrante.

Una delle novità rispetto al copione originale, infatti, è la mafia russa, che non ha nulla da invidiare alle altre mafie mondiali. I giurati si rendono conto che il ragazzo ceceno è finito in mezzo ad un’operazione “poco pulita” in forte odore di mafia, e questo dà alla storia una connotazione decisamente diversa. Se infatti i giurati opteranno per l’innocenza del giovane, questo comporterà una responsabilità maggiore di quanto comporterebbe un giudizio di colpevolezza: se infatti il ragazzo uscisse di galera, finirebbe nel mirino della mafia che l’ha “incastrato”, e quindi paradossalmente un verdetto di innocenza sarebbe una condanna a morte sicura.

La responsabilità è un elemento che si innalza dalla storia squisitamente giudiziaria e si riallaccia alla situazione russa che da sempre sta a cuore del regista. Durante tutto il film nella stanza vola un piccolo uccellino rimasto imprigionato nell’ambiente. Quello che sembra un semplice elemento scenografico svela la propria valenza nel finale, quando uno dei protagonisti apre una finestra e si rivolge all’uccellino: «Vuoi volare via? Vola, sei libero. Se vuoi restare, resta pure. La decisione è solo tua: nessuno può scegliere per te».

Nikita Mikhalkov
Nikita Mikhalkov
È come se Mikhalkov si rivolgesse ai propri connazionali invitandoli a scegliere da quale parte stare: possono andarsene, se vogliono, volare via, ma se rimangono bisogna rimboccarsi le maniche e prendersi le proprie responsabilità.

Il regista sceglie una frase significativa per chiudere la pellicola: «La legge viene prima di tutto, ma cosa si può fare se la pietà viene prima della legge?». L’autore è il fantomatico B. Tosia che fa pensare più ad uno pseudonimo di Mikhalkov stesso che ad un oscuro autore.

Una curiosità. L’attore Sergej Garmash, che interpreta l’accorato tassista che fino all’ultimo considera colpevole il giovane ceceno, da anni cercava di partecipare ad un film di Mikhalkov, giungendo addirittura a pregarlo di avere una parte. Si dice che un giorno il regista gli abbia telefonato e gli abbia chiesto se andasse in chiesa. «Certo» rispose Garmash, poi alla domanda se pregasse molto, rispose «Sicuro». «Le tue preghiere sono state ascoltate - pare abbia risposto il regista russo - Ti sto spedendo un copione!»

La sequenza che chiude “12” è di fortissimo impatto visivo ed emotivo: un cane randagio che cammina portando in bocca una mano umana mozzata, che arriva a conclusione di varie scene di guerre in Cecenia mostrate come a scandire gli atti della commedia umana portata avanti dai giurati. Una scena durissima di forte contrasto con l’atmosfera da “dramma da camera” che il film aveva avuto fino ad allora. Serve a ricordare che al di là del cinema... c’è la Cecenia.