Robert Miles è un parapsicologo impegnato in alcune ricerche tese a captare le voci dei morti tramite particolari apparecchiature. L’uomo, che vive pressoché isolato in una grande villa, ha come unico compagno un gatto nero particolarmente aggressivo nei suoi confronti. Improvvisamente nella cittadina dove Miles vive hanno inizio una serie di morti violente che in apparenza sembrano dovute al caso. Un investigatore di Scotland Yard e una fotografa americana impegnata in un reportage iniziano a indagare, convinti che le morti siano tutt’altro che casuali… Questo è Black cat, in fondo più dimenticabile che annoverabile. Ciò detto, qualche riga è il caso di dedicargliela, non fosse altro per via di uno dei più massicci abusi di parte anatomica che ci sia mai capitato di vedere, abusi che in linea con quanto affermò una volta Orson Welles, secondo il quale "un film sbagliato è un film sbagliato. Due film sbagliati sono una ricerca. Tre film sbagliati sono uno stile" diventano segno di uno stile che permea l’intera pellicola. L’abuso, pardon, lo stile, della parte anatomica altro non è, anzi, altro non sono, che gli occhi di Patrick Magee, che Fulci riprende con furia coattiva alternandoli spesso con il controcampo degli occhi del felino del titolo, forse spinto dalla constatazione che Magee aveva di per sé una caratteristica non proprio comune, quella cioè di guardare chiunque gli si parasse davanti con uno sguardo perennemente diretto dal basso verso l’alto, sempre a metà tra il feroce e l’ironico (comunque sia la performance di Magee è ammirevole, perché mentre Fulci stra-abusa delle sue pupille lui imperterrito recita come se fosse ancora al cospetto di Stanley Kubrick). Il binomio luogo-eventi è di quelli che vivono sul contrasto, dove a un luogo bucolico (la campagna inglese), corrispondono decessi quanto mai efferati, con il fuoco che scioglie i corpi, la bava che prende via via il posto dell’aria che manca, l’acciaio che trapassa le viscere. Il film non è particolarmente cruento (niente a che vedere, per fare un esempio, con il primissimo piano dell’occhio trapassato da una scheggia di legno in Zombi 2) e contiene almeno un’escursione nell’artigianale spinto, esattamente quando Jill, la fotografa, è aggredita da alcuni pipistrelli; non soltanto si vedono i fili che li sorreggono, ma quando afferrano i capelli della poveretta, più che ribrezzo scatta l'ilarità, visto che sembra di assistere all’opera di un coiffeur in pieno delirio da messa in piega. La dimensione autoriflessiva (che avrà il suo culmine nel cinema di Lucio Fulci con Un gatto nel cervello) è rappresentata dalla presenza della stessa fotografa. Certo Fulci non è Antonioni, e allora la fotografia piuttosto che gettare le armi di fronte all’evanescenza di ciò che si crede oggettivo e che ciò nonostante si sottrae alla riproduzione meccanica, si limita a prendere atto che la realtà ci si para davanti e non è possibile fare altro che immortalarla nella sua duplice dimensione visivo-sonora (peccato che Fulci abbandoni quasi subito la seconda...). Risultano affascinanti le soggettive feline che costellano il film e l’omaggio esplicito a Hitchcock, esattamente quando Jill respinge il diabolico felino a colpi di flash (proprio come fa James Stewart nei confronti di Raymond Burr ne La finestra sul cortile). Certo, Fulci ha fatto di meglio, Non si sevizia un paperino è uno dei film italiani più belli degli anni '70, dove un giovanissimo Marc Porel, curato di campagna, anziché stilare un diario compie crimini inenarrabili ai danni dei fanciulli. Infine, quando scatta l’ora della punizione, la sua carne a contatto con la roccia fa letteralmente le scintille... Ecco, Black cat è un po’ questo: qualche scintilla, ma mai un vero incendio.

Extra

biografia di Lucio Fulci, filmografie (Fulci, Magee, Mismy Farmer), galleria fotografica