Siamo nel 1973 e la tv italiana si identifica ancora nella Rai. Il pubblico segue con passione gli sceneggiati – gialli e non – tratti da capolavori della letteratura mondiale: quelli, per intenderci che proprio adesso possiamo trovare in dvd in edicola ogni settimana.
Sul piccolo schermo furoreggiano l’impermeabilizzato tenente Sheridan di Ubaldo Lay e il fumigante commissario Maigret di Gino Cervi; il corpulento Nero Wolfe di Tino Buazzelli e l’elegante Sherlock Holmes di Nando Gazzolo; per non parlare dei detective partoriti dalla fervida immaginazione di Francis Durbridge (uno su tutti: l’Harry Brent interpretato da Alberto Lupo).
Ebbene, invece di cavalcare tranquillamente il successo, i dirigenti Rai decidono di tentare nuove strade e affidano a due sceneggiatori giovani che lavorano anche al cinema, Massimo Felisatti & Fabio Pittorru, e a un regista ormai sperimentato in tv, Anton Giulio Majano, una serie in sei episodi che vede al centro delle indagini l’intera Squadra Mobile romana.
Certo, agli occhi ormai smaliziati di spettatori che ne hanno viste di tutte, da Hill Street giorno e notte a N.Y.P.D., da Law & Order a C.S.I., quelle immagini fanno davvero tenerezza: la lunghissima scena iniziale con la sala operativa della Questura della capitale con apparecchiature che farebbero la felicità di qualsiasi appassionato di modernariato; le lucine che si accendono sulla mappa della città e gli apparecchi telefonici dalle dimensioni imbarazzanti; le buone vecchie Giulie delle Volanti e la Scientifica alle prese con i mozziconi di sigaretta quando ancora l’esame del DNA era di là da venire.
Eppure, per i tempi, tutto questo è davvero rivoluzionario; come pure l’esistenza di una centrale unificata di soccorso pubblico (il 113 inaugurato appunto nel 1968 e che suscita in una donna convocata in Questura per una testimonianza una pedagogica ammirazione); o il fatto che in una fiction ci sia più di una linea narrativa: la prima puntata inizia infatti con la cattura di una banda di rapinatori mentre il vero giallo si incentra sulla morte di un professore, Artale, che vanta al suo attivo una moglie separata, un’amante in carica, un’amante di riserva, varie avventure e una carriera di scrittore di romanzi porno sotto pseudonimo.
A proposito: per un pubblico di prima serata sentir parlare di romanzi porno scritti da un austero docente di lettere – seppure di una scuola privata – o del fatto che un importante pezzo grosso mantenesse una escort, doveva provocare più di un brivido anche se Felisatti & Pittorru, nel pubblicare negli stessi anni la versione cartacea delle avventure dei loro eroi, lamentavano una troppa forte censura televisiva che aveva impedito loro di dare un più elevato spessore polemico-sociale alle loro inchieste.
Pedagogica la composizione della Squadra Mobile, una sorta di bricolage etnico che, per sfuggire al luogo comune delle forze dell’ordine meridionalizzate, finisce per crearne un altro, magari più “progressista”: il capo, il toscano Antonio Carraro (Giancarlo Sbragia), è tutto organizzazione e lavoro d’équipe; il capo della Omicidi, il napoletano Fernando Solmi (Orazio Orlando), è invece tutto intuizione e buon cuore; e poi c’è il sardo maresciallo Attardi, esempio di sottufficiale prezioso e umile, e giù giù fino ad arrivare all’ispettrice di polizia Nunziante, chiamata a rappresentare la presenza femminile, allora assai risibile, nelle Polizia di Stato.
Inutile dire poi che le riunioni nell’ufficio di Carraro, con tutti i dirigenti (dalla Omicidi alla Buoncostume, dalla Furti e Rapine alla Scientifica) in prima linea per discutere i risvolti di un delitto tutto sommato banale (lo strangolamento da parte di una donna sconosciuta di un docente dongiovanni e pornografo nonché, alla fine, pure ricattatore), sono altamente inverosimili: ma servono a condurre lo spettatore nei meandri della vicenda, a fargli capire la differenza di impostazioni di indagine (soprattutto tra Carraro e Solmi), a fargli prendere dimestichezza con la complessa macchina investigativa della Mobile di una grande città.
Non mancano infine quelle piccole note di commedia umana – negli anni a venire fin troppo presenti nelle serie tv – con il figlio di Solmi, orfano di madre, tiranneggiato dalla governante o con la moglie e la figlia di Carraro sacrificate sull’altare della devozione al lavoro.
Ma in definitiva l’importanza delle serie – premiata da uno straordinario successo di pubblico a differenza della serie “gemella”, partorita l’anno dopo, dedicata al Nucleo Centrale Investigativo della Guardia di Finanza – è più in quello che promette e che insegna – in fin dei conti sono passati pochi anni da Il triangolo rosso dedicata alle imprese della Polizia Stradale – che nello spunto poliziesco vero e proprio: anche perché la dura denuncia sociale e politica dei marxisti Felisatti & Pittorru si dispiega pienamente solo nei romanzi; qui la mano sapiente e prudente di Anton Giulio Majano smussa tutte le asprezze della sceneggiatura che potrebbero turbare il pubblico a casa: che ricambia generosamente le attenzioni del regista.
Voto. 7 (alle intenzioni)
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