Si svolge soprattutto a Milano La bellezza è un malinteso, la nuova indagine del Gorilla, ultimo romanzo di Sandrone Dazieri edito da Mondadori nella collana Strade Blu. É la Milano grigio-cementizia del Gorilla, ma anche quella delle gallerie d’arte, quella snob dei locali notturni, quella emarginata dei quartieri-ghetto e quella dei passaggi fugaci. Proprio nella metropolitana –luogo fugace per eccellenza– si consumano gli ultimi momenti di vita di un uomo con cui il Gorilla Dazieri aveva da poco avuto a che fare per questioni assicurative. Da qui si dipana una vicenda investigativa avvincente, che incastra perfettamente elementi diversi -il mistero del suicidio, un certo tipo di criminalità deviata, logiche meschine di potere, la follia- e personaggi che resteranno indelebili, a partire dai terribili individui con le maschere dei Beatles.

A questa storia si intreccia quella privata del Gorilla Dazieri. La moglie russa aderisce alla triangolazione perfetta di un’intimità quasi familiare: convivono –non sempre facilmente– lei, il Gorilla e il suo Socio, ovvero l’alter ego che sballotta il Gorilla quando occorre, lo stuzzica, si burla di lui, ma al momento giusto prende in pugno la situazione e risolve l’impasse. Il Socio, la metà oscura, che poi così oscura non è, ama il silenzio e sa parlare russo. Malattia, schizofrenia? Per la scienza senz’altro. Sandrone il Gorilla ha invece imparato a convivere con questo passeggero straordinario ed è refrattario a terapie mediche che lo ridurrebbero a livelli larvali. In fondo la questione è molto più semplice di quanto si potrebbe credere, come lui stesso aveva chiarito una volta alla bella (e pure brava) moglie: «Le avevo spiegato come funzionava il mio cervello, senza termini tecnici perché in inglese mi veniva difficile. Il succo era: due personalità. Oltre a quella che ti parla, ce n’è un’altra che viene fuori quando in teoria dovrei dormire. Attualmente il nostro ciclo è sedici ore io, otto lui. Si accontenta, ma delle volte sono costretto a dargli più spazio, o lui a me. Scordati Jeckyll e Hyde, però. L’altro me non è cattivo. Solo percepisce la realtà diversamente da come la vedo io.»

La follia è il plasma coaugulante che scorre in sottofondo. Ma non si tratta di follia nel senso più banale del termine. Sono sfaccettature di una realtà diversamente decifrabile, è la dissociazione -voluta o obbligata- dalla presunta normalità, è la dissidenza di chi non ci sta, è la doppiezza Gorilla-Socio, ma è anche il guizzo lucido, spaventato e un po’ rabbioso che solo un altro pazzo può riconoscere negli occhi di una ragazzina reduce da un viaggio all’inferno: «Conosco quello sguardo, lo conosco molto bene: è lo stesso che avevo io alla sua età. Ce l’abbiamo tutti, noi matti che dobbiamo sopravvivere nel mondo dei normali.»

Un romanzo notevole, intenso, mai ridondante, uno di quei romanzi che s’interrompono a malincuore, solo perché costretti, e da cui si torna appena un minuto libero lo consente. Scene limpide, in alcuni momenti visive, dialoghi verosimili che beneficiano dell’attività precedente di sceneggiatore di questo autore cremonese, classe 1964, con un lungo curriculum nel campo editoriale. Oltre la trama, un elemento lugubre è introdotto con discrezione e con l’appannaggio sfumato della materia artistica: un’installazione di scheletri, le stesse ossa da cui prende il nome il titolo del romanzo, The beauty is a misunderstanding, opera di Damien Hirst. Un artista britannico la cui poetica è incentrata sulla morte e sulla percezione umana della stessa, destinata all’incompiutezza. Così non è solo la bellezza a essere un malinteso. Lo è la morte stessa, lo sono l’uomo e le sue assurdità. E la vita, con tutto il suo pacchetto di controversie e di dubbi: dolcezze e spigolosità incluse.

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