Continua il percorso di Paola Barbato, che dalla scrittura di Dylan Dog è approdata alla forma romanzesca con personaggi propri: e dopo Bilico e Mani nude, anche la terza prova de Il filo rosso, a ben guardare, si lega per molti versi all’esperienza di sceneggiatura per il fumetto di Sclavi, peraltro mai finita.
Antonio Lavezzi è un quarantenne, ingegnere edile, che oggi vive in una “scatola”, è ordinato, metodico e impermeabile a qualsiasi stimolo esterno: cinque anni prima la figlia – 13enne – è stata stuprata e uccisa, lui è caduto in coma ferito gravemente proprio dall’assassino, si è risvegliato lasciato anche dalla moglie. Il romanzo inizia quando la sua vita protetta si riempie di strani segnali, come una frase scritta col miglio sui gradini di casa: qualcuno sta lanciando un messaggio, si delinea così la figura di un misterioso serial killer che colpisce i colpevoli di crimini orrendi, servendosi proprio dei parenti delle vittime…
E’ un thriller e non si può dire oltre. Va invece sottolineata l’idea stilistica della scrittrice: nelle prime uscite in edicola – risalenti al 1999 – apprezzata (o criticata) per l’estrema attenzione alla trama, a svantaggio di altri elementi, questa conferma come in realtà l’intreccio sia il fulcro studiato di una concezione che investe il libro esattamente come il fumetto. Il plot è la base per creare atmosfere: così i rovesciamenti ci sono, la cura per la trama è assoluta (ultimo colpo di scena all’ultima pagina), ma la prosa resta secca e precisa; si lancia in metafore e trasfigurazioni simboliche, come lecito che sia, ma le poggia su una costruzione piana che riscuote effetti semplici (“E il pensiero emerse come una macchia d’olio sull’acqua”). Il plot non è visionario: viene esposto metodicamente, seguendo perlopiù le giornate del protagonista, con alcune brevi eccezioni, racconta gli eventi mentre accadono aggirando così la trappola dello “spiegazionismo”. Il plot non esplicita nulla: quando poi la spiegazione effettivamente arriva (nell’intermezzo prefinale), questa non si perde in svolazzi e lascia parlare il dato del racconto attraverso il ricorso, ancora semplice, alla focalizzazione interna. Il plot, insomma, contiene il pregio maggiore: la capacità di risolvere una storia intricata in modo chiaro, logico, quasi inevitabile.*
Queste considerazioni, in secondo luogo, portano alla consapevolezza che l’autrice ha della materia narrativa; basti dire che in punta di piedi sembra affermare il primato dell’evocazione sulla narrazione (per esempio nei titoli dei capitoli: “L’ordine e il disordine”…), in generale è capace di suggerire anche una sottile riflessione su ciò che sta facendo: significativo è il passaggio in cui il criminologo si appunta il titolo del prossimo libro (Il terzo vertice del triangolo: vittima – carnefice – sopravvissuto), libro che non scriverà…
In questo sforzo di costruzione, il romanzo non trascura il piacere di raccontare, ovvero le pagine semplicemente riuscite: dalle sequenze di genere (il primo viaggio di Lavezzi a Genova), fino ai nodi con alto potenziale emotivo, come il doppio incontro Antonio-Clelia e Antonio-Lara, che segna una moltiplicazione della figura femminile – la donna che visse più volte - di nuovo intimamente letteraria. Barbato, d’altra parte, non sconfigge tutti gli archetipi: usa alcuni automatismi da manuale (l’assassino super-intelligente che tira le fila, il compimento del piano finale: una vera sevenata), mette il pilota automatico nel tratteggio (semiserio?) di figure di contorno, come l’esperto con i quadri dei serial killer alle pareti… Se resta legittimo, in ogni caso, attingere al materiale che ha influenzato gli ultimi decenni, anche queste ingenuità si fanno perdonare con i centellinati azzardi stilistici: il maggiore nell’ultima parte, il flusso di coscienza del cane (ad alto rischio per ovvi motivi), si risolve con esiti felici.
Il filo rosso ha l’attualità come ultima freccia al suo arco: è un mistero nutrito di cronaca, pieno di eventi e figure di questi tempi, acquisite quasi come “classici” (il mostro/sequestratore, l’omicidio inspiegabile nella famiglia bene, la percezione delle morti bianche, il vampirismo dell’opinione pubblica, eccetera), offrendo così una mitologia nera contemporanea. L’autrice invita a “vedere oltre e leggere tra le righe”: è esattamente lì che bisogna guardare, nelle pieghe delle pagine, quelle che fanno luce sulle nostre ombre, dove il giallo non è solo meccanismo, il thriller esce dal genere. Fuori luogo le accuse di scarsa verosimiglianza e cupezza eccessiva: la prima non si trova nella finzione e la seconda è inevitabile, se stiamo troppo davanti allo specchio la visione può farsi insostenibile. Problema morale annesso: la differenza tra giustizia e giustiziare.
*L’impostazione de Il filo rosso ricorda, per esempio, Dylan Dog n.189 Il prezzo della morte: la stessa idea di racconto muove la sorpresa finale, il rovesciamento della figura del serial killer, la sua riconsiderazione sotto una nuova luce.
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