Dal 10 gennaio per un mese è andata in onda su RaiUno, in prima serata per sei puntate, Io e mio figlio. Nuove storie per il commissario Vivaldi, la prima fiction poliziesca del nuovo anno nella tv di stato.

In realtà si tratta del (tardivo) sviluppo seriale di una miniserie, col titolo parzialmente diverso (Mio figlio) andata in onda nel 2005. Allora la scommessa si mostrò azzeccata: venne preso un genere di largo consumo letterario e televisivo, il poliziesco; fu scelta un’ambientazione, quella triestina, non ancora inflazionata; si volle nei panni del protagonista, il commissario Federico Vivaldi, un attore, Lando Buzzanca, notoriamente collocato culturalmente a destra, che, oltre tutto,  nell’immaginario del telespettatore medio scontava i “peccati” di gioventù delle commedie sexy e scollacciate; e poi lo si mise a reagire con la storia della omosessualità del figlio, politicamente correttissima e relativamente audace per la prima rete Rai.

La miscela, come si è detto, funzionò alla perfezione, tanto che già da allora l’attore siciliano rilasciò dichiarazioni in cui assicurava che ci sarebbe stato un sequel più articolato; le riprese iniziarono addirittura nel 2008. Sono trascorsi cinque anni e finalmente la serie è arrivata: il blocco degli attori protagonisti è rimasto inalterato (oltre a Buzzanca c’è Caterina Vertova nei panni della moglie Laura e Giovanni Scifoni in quelli del figlio, oltre tutto poliziotto come il padre); identica la cornice triestina (anche se non basta qualche “cartolina” del capoluogo giuliano esibita a ogni snodo narrativo per garantire un’autentica ambientazione locale); solita compresenza tra il “filo rosso” del mistero principale, che si sviluppa attraverso le 6 puntate previste, e la vicenda autoconclusa che costituisce il nerbo di ogni episodio che, contrariamente alle abitudini italiane, non viene compresso in 45/50 minuti ma si estende per tutta l’ora e mezza abbondante della programmazione.

Lo diciamo subito: il risultato non ci ha convinto, galleggiando su un’aurea mediocrità che può anche creare un successo di audience, ma che non è destinata a far rimanere il prodotto negli annali della tv italiana.

Abbiamo già detto dell’inflazione di (gratuiti) scorci triestini con Piazza Unità d’Italia a farla da padrone e il Castello di Miramare a spuntare qua e là dai generosi scorci marini: ma la “triestinità” della storia dovrebbe essere assicurata dallo spessore delle singole vicende; viceversa i singoli casi affrontati dal commissario Vivaldi e da suo figlio potrebbero essere ambientati in qualsiasi parte d’Italia. Insomma, per dirla in breve, la sindrome delle film commission regionali (che finanziano generosamente le fiction che si svolgono sul loro territorio) ha colpito ancora: e ci piange il cuore ripensando anche al trasferimento coatto, nello scorso autunno, del povero commissario Soneri dalle nebbie padane alle geometrie sabaude di Torino…

Non c’è piaciuta peraltro neppure l’evoluzione (o involuzione?) della storia d’amore di Stefano Vivaldi per il bel chirurgo Damien Crescenzi: il giovane poliziotto è sembrato essere molto sensibile alle sirene della sua ex fidanzata in procinto di sposarsi e ci è venuta in mente la “normalizzazione” di un altro omosessuale protagonista della prima serata tv, il Luca Benvenuto  beniamino di Distretto di polizia. In ogni caso gli sceneggiatori hanno cercato di spremere dalla situazione il massimo del sentimentalismo mentre hanno costretto Buzzanca e la Verteva a giocare agli adolescenti innamorati, ma non fedelissimi.

Ma anche l’interpretazione di Buzzanca è sembrata procedere a strappi: l’attore, peraltro appesantito nelle non frequenti scene d’azione, alterna espressioni drammatiche, degne delle sue più recenti interpretazioni (dai Viceré cinematografici allo Scandalo della Banca Romana televisivo), a ghigni e risatine che evocano i suoi trascorsi da “merlo maschio” nella produzione erotica degli anni Settanta: senza contare l’incipit del primo episodio con l’interpretazione di un sonetto dantesco (perbacco, la Rai è o non è un servizio pubblico al servizio della cultura?) dagli esiti non propriamente memorabili.

Insomma, diversamente da quello che accade negli Stati Uniti, dove la serialità stimola la creatività e l’innovazione, abbiamo avuto l’impressione che si sia rientrati, alla chetichella, sui tranquillizzanti binari della normalità, ossia del solito connubio tra detection e commedia all’italiana con una spolveratina di proibito in grado di non turbare troppo il tradizionale pubblico di mezza età delle rete ammiraglia.

Ascolti promettenti, magari, e promessa di una nuova serie: ma questo non garantisce certo un posto nel Gotha del poliziesco tv.

 

Voto: 5