Siamo nella Bologna dell’inverno 1312 e ritroviamo Mondino de’ Liuzzi, il Magister, l’anatomista già conosciuto ai lettori di “Cuore di ferro”. Non è un sequel, I discepoli del fuoco di Alfredo Colitto, ma un thriller storico disgiunto dal precedente, anche se nella stessa Bologna suggestiva si muove ancora Mondino, coadiuvato da Gerardo da Castelbretone, suo ex allievo ed ex Templare. Il podestà ha incaricato il medico di far luce su una morte terrificante su cui pende già il sospetto di maleficio satanico: Bertrando Lamberti, membro del Consiglio degli Anziani e padre di Azzone, nemico giurato di Mondino, è stato ritrovato carbonizzato in casa sua. Un decesso oltremodo strano, tanto più che, nella stanza, non appare neppure un indizio di incendio, sembra che l’uomo sia bruciato dall’interno: «Il braccio destro, intero fino alla spalla ma bruciato come un arrosto dimenticato sulla brace, era poggiato su un bracciolo. I piedi calzati in un paio di stivaletti bassi sembravano illesi, ma le gambe bianche e flaccide da vecchio terminavano sotto il ginocchio in due spuntoni carbonizzati, appiccicati al cuoio, che si era fuso nei punti in cui toccava il cadavere...»
Il cadavere viene portato nella scuola di medicina di Mondino per un esame autoptico. E subito sollevata la pelle bruciata del braccio, col coltello da dissezione, vengono scoperti i resti di un tatuaggio: un mostro alato, con la testa di leone e il corpo avvolto nelle spire di un serpente. Ad infittire il misero concorre, la mattina seguente, la scomparsa della salma.
L’assassinio di un frate francescano e un disegno simile al tatuaggio alato scoperto di Bertrando Lamberti intrecciano l’indagine sulle due morti con una setta di cultori di Mithra, il dio persiano del sole e del fuoco, elemento della “storia sconfitta” che riconduce agli albori del cristianesimo e allo sconfinamento sincretico delle origini. Il fuoco e il suo significato esoterico è il grande co-protagonista che brucia queste pagine. Il fuoco come minaccia, il fuoco come purificazione, il fuoco come metafora.
Pagine che scorrono fluide, momenti mozzafiato alternati a descrizioni efficaci ma mai iperboliche che ci proiettano indietro nei secoli e ci calano nei vicoli bolognesi, tra torri, portici e stradine densi di odori, rumori, sensazioni.
La trama incalza, i personaggi son delineati con naturalezza di movimento, persi negli eterni dilemmi dell’uomo, passioni, avidità, religioni, intrighi, sopravvivenze, le vicende procedono con scioltezza e con l’erudizione che Colitto possiede (studia la Bologna medievale ormai da qualche anno) e che ci elargisce con disinvoltura senza cadere mai nel nozionistico. La misura è la sua arte, una misura preziosa, colta, limpida, in magico equilibrio tra storia, invenzione, atmosfere e dipinto narrativo.
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