Partiamo dal tuo ultimo libro, “I Cariolanti” (Elliot, 2009). Il suo successo è conclamato da voci autorevoli del panorama letterario: da Luigi Bernardi a Valeria Parrella a Ermanno Paccagnini del Corriere della Sera. Se tu dovessi analizzare l’opera come se fossi un “tecnico del successo”, quali elementi individueresti tra quelli che hanno reso “I Cariolanti” uno dei  libri più apprezzati del 2009?

È difficilissimo rispondere, perché ci sto dentro dai tacchi allo scalpo. Ma c’è una nota di Palahniuk, semplice semplice, che dice così: “Scrivi il libro che vorresti leggere”. Forse è questo. Ogni volta che metto mano a un foglio questa nota la metto sempre in prospettiva – ma mica la ragiono, c’è e basta –, e tutto si organizza più o meno in quella direzione, soprattutto nei termini del tormento, della passione che mi porta a continuare quando sento che una storia regge bene. È nell’ultima rilettura che capisco se un lavoro funziona davvero, quindi come tecnico – uno che sa pianificare, prevedere il risultato di pancia e quindi pensare ad adattarlo a un pubblico – sarei piuttosto scarso. Forse il colpo più potente che dà I Cariolanti, sta nell’identificare in Bastiano – il protagonista del romanzo – quella tegola messa male, un po’ di sbieco, che tutti in qualche modo abbiamo dentro, e che ci separa dall’istinto animale, con tutte le sue conseguenze. Be’, Bastiano mostra con la sua storia che quella tegola può cadere da un momento all’altro. E insomma, vengono fuori delle cose strane.

 

Ci racconti come hai proceduto per la pubblicazione? A chi l’hai spedito, quanto hai aspettato prima del responso...

Per “I Cariolanti” ho usato lo stesso metodo di sempre: l’ho chiuso, riletto, e poi ho spedito a varie case editrici che mi sembravano adatte. La scelta della casa editrice è fondamentale, è bene avere chiara la linea editoriale, perché puoi scrivere anche il romanzo di fantascienza più bello del mondo, ma se lo mandi alla casa editrice sbagliata, che non pubblica Fantascienza, ti possono dire anche bravo, ma tanto non ti pubblicano. Elliot è stato il tentativo in cui forse speravo meno, mi dicevo: see, col cavolo che quelli mi rispondono, col cavolo che leggono, col cavolo che gli piace… Però questa collana Heroes mi prendeva troppo, la vedevo coraggiosa, e io pensavo di avere un testo coraggioso, non di genere ma con suggestioni che volavano attorno a vari bordi, con una voce sua e una storia fuori dagli attuali schemi letterari – ma ero io a pensarlo, quello che l’aveva scritto, e quindi questo contava poco o niente. Cinque – dico cinque – giorni dopo ricevetti una mail entusiasta direttamente da Massimiliano Governi. Sulle prime ho pensato anche a uno scherzo.

Una volta entrato dietro le quinte dell’editoria per la fase di revisione de “I Cariolanti”, come sono stati i rapporti professionali e umani con chi manovra i ferri del mestiere?

Qui bisogna che mi soffermi un attimo. Ho detto di Massimiliano Governi. Credo che il sogno di un qualsiasi scrittore che spende un bel pezzo delle proprie energie in questa direzione, sia trovare l’editor giusto. Insomma, qualcuno che al di là dei “rapporti professionali” abbia una sfumatura dell’anima affine, sotto i fronti più importanti della vita. Un editor prende le tue cose, le legge, e ti fa un po’ da bussola – non ha importanza il grado di successo che stai vivendo. Un editor deve sempre cercare di metterti in discussione e all’occorrenza anche spezzarti le ossa – in maniera costruttiva, è chiaro. Un editor ti dice: «Vedi Sacha, l’idea è buona, ma questa voce…». O: «Qui perdi un po’ l’intenzione, riguarda questa parte». Ti dice: «Fammi vedere il cuore del libro, sempre, ma senza sbattermelo continuamente in faccia». Eccetera. Però ci vuole quell’affinità lì, di qualcuno che cerca nello scrivere una cosa vicina a quella che cerchi te, che nel frattempo ti cambi tonnellate di mutande sudate per far venire fuori una storia che funzioni bene. Ma va tutto a puttane se l’editor in questione cerca da me una cosa che non m’interessa, o il contrario. E il casino è proprio questo: trovare in tutto il mare intorno, qualcuno che abbia quella vicinanza lì, nel bene e nel male. Ecco, Massimiliano Governi per me è diventata tutta questa cosa.

Io spessissimo mi sento come un pesce che si sbatte e che gli scappa dalle mani e guizza di qua e di là senza pace, mentre lui cerca di acchiapparmi, di farmi stare fermo un attimo. Ma solo per mettermi giù, nell’acqua, dove vivo bene. Mi incita e mi tiene per le briglie insieme, e questa cosa mi posiziona in uno stato di fermento esagerato. Mi fido di lui ciecamente. Essere seguiti da un editor come Massimiliano Governi, ti aiuta a mettere in prospettiva l’eventuale tracotanza di talento che puoi avere – non parlo per me, dico in generale. Perché il talento è buona cosa, ma può farti sbandare, distoglierti dal cuore vivo. Per “I Cariolanti” il lavoro è stato minimo, ci siamo limitati ad assestare bene delle scorie, niente di più. Ora viene il bello.

 

Come ti è venuta l’idea geniale di una casa ottenuta da un buco nel terreno del bosco?

Sono vecchie storie che si raccontano dalle mie parti, tane di balzello di cacciatori che all’inizio del secolo scorso si appostavano là sotto aspettando le bestie dei boschi – ma forse, appunto, sono solo storie. Ci ho giocato un po’. Avevo bisogno di dare a Bastiano un imprinting del tutto al di fuori degli schemi. Mi serviva disperazione, affanno, paura. Dopo, la strada era tutta in salita, ma sapevo dove andare a parare, anche con la voce che stavo usando.

 

E quella dei cariolanti?

I cariolanti è una vecchia storiella che sempre all’inizio del secolo scorso le madri raccontavano ai loro bambini: «Se non mangi tutto arrivano i cariolanti e ti portano via», «Dormi presto, sennò arrivano i cariolanti» eccetera. Mi piaceva l’idea che assieme a tutto il macello circostante, Bastiano fosse timbrato da questa cosa che in qualche modo concorrerà alla sua costruzione interiore stravolta, trasversale. Insomma, un simbolo nero che gli marchia l’anima.

 

La casa, il bimbo, la povertà, il bosco: elementi base per le fiabe, tanto che la tua è stata definita una favola nera. Quali fiabe ti piacevano da bambino? E quali ti terrorizzavano?

Sì, “I Cariolanti” è una “favola nera” – al limite potrebbe essere definita una storia di “Terrore”, che forse lo slega di più da una tendenza generale che per motivi di pura individuazione commerciale lo fa chiamare “Horror”.

Ne I cariolanti non ci sono elementi soprannaturali; c’è solo l’orrore puro, quello umano, la disperazione di un preciso spaccato della realtà, e lì in mezzo si muove Bastiano. Sono stato attentissimo a non cadere nel genere, cosa che per quanto riguarda le mie cose, non mi piace affatto – a parte i casi in cui mi viene espressamente chiesto di andare in quella direzione, ma sempre nei termini della contaminazione o la suggestione della trama, del registro narrativo. Da bambino leggevo di tutto (un libro che mi piaceva tantissimo era “La compagnia dei diavoli rossi”, che non ho più trovato), compresi i racconti che davano sul nero, certo, a partire da “Hänsel e Gretel” a tutto il resto. A volte, se il finale non mi piaceva, me lo riscrivevo io su un quadernetto. O lo pensavo e basta. Poi c’erano le fiabe che mi raccontava mia nonna, facendole arrivare a me da generazioni lontanissime. Roba tosta, che tra l’altro tempo fa ho riscritto e chiuso in una raccolta che chissà, magari un giorno rimetterò in piedi e tirerò fuori dal cassetto. C’è un corto della Pixar che me ne ricorda una, eccolo qui:

-

-

Il “cariolante-tour” ti ha portato in giro per l’Italia a promuovere il tuo libro. Com’è il rapporto coi lettori? Ti sei fatto l’idea di ciò che cerca in un libro il genere di lettore che ti apprezza?

Mah, non so se io ho un “genere di lettore”. Scrivo sempre diverso. Diciamo che inversamente, so cosa voglio io da loro: che non sentano sprecati i soldi che spendono se prendono una cosa mia.

 

Com’è scrivere?  

È come metterti lì e infilarti una mano in pancia, entrando dalla bocca. Come dentro a un sacco, fino al gomito, senza sapere cos’è che ti può mordere là dentro. Più vai giù, più fa male, più è rischioso. E più ti diverti. Lucidamente.

 

Di cosa ti occupi oltre alla scrittura?

Sono un grafico freelance, collaboro con varie case editrici e riviste, soprattutto come copertinista e impaginatore. È un lavoro che mi permette di restare nell’ambiente editoriale, vedere da vicino i movimenti, dal basso. E poi è creativo e sempre diverso, mi fa conoscere persone ogni giorno, seppure poi, nel tecnico, sia un lavoro abbastanza solitario. E questo mi va benissimo. Se vuoi vedermi morire dentro, prendimi e sbattimi in un ufficio con un cappio windsor firmato burberry al collo, e avrai l’effetto desiderato.

 

Come sono i tuoi momenti creativi? Raccontaci come sei in fase di: ideazione, stesura e revisione.  

Ideazione. Soffro, sto male, sembro una signorina in stato interessante, ho le voglie, le doglie, e una specie di nausea che mi fa smanettare sulla testa per fare aria e capire cosa c’è di buono in quella nebbia che mi gira nel cervello. Poi c’è la stesura – che a volte coincide con quella parte che ho appena detto, come passettini sbilenchi di qualcuno che comincia a camminare ora. Qui di solito sono velocissimo, e tendo a scrivere “da definitivo”. Un limite imprescindibile è la pagina cinquanta, quando di solito una storia mi comincia a galoppare sul serio. Devo sentire che la distanza tiene, e se è sì, continuo a testa bassa. Sennò incendio un appartamento a caso della mia via tanto per sfogarmi. Se arrivo a chiudere, c’è la revisione. Aspetto qualche giorno, tanto per riprendere contatto con la realtà, e poi rileggo. Anzi, di solito mi servo della mia schiava personale – si fa per dire, semmai è il contrario – che ha una lettura stupenda, e io che me ne sto di spalle, senza guardare le pagine.

Anche perché se leggo io a voce alta, sembro Paperino. Invece la sua voce mi fa capire se il libro tiene, intanto appunto mentalmente se c’è da cambiare roba o meno, da definire o soprattutto togliere. Ma in generale sono sempre, costantemente, alla mercè delle storie che mi si incastrano in testa. Perché ho questo problema qui: me ne vengono fuori un sacco, non dico ogni ora, ma ogni giorno sì. Anche in questo un bravo editor è fortemente di aiuto: per canalizzare le energie in una direzione precisa. Perché qualsiasi cosa può essere uno spunto – l’ultimo entrato in classifica è questo, ve lo racconto: il bimbo grasso e antipatico e con un braccino ingessato che abita davanti alla mia finestra, di là dalla strada. Tre giorni fa ha provato a scavalcare il balcone di casa, che è basso, ma siccome lui è bello in carne, è caduto giù e si è spezzato qualche osso. Nel balcone in questione ci tengono un cane, che sta costantemente in isolamento lì, e abbaia a tutto. Sicché questo bimbo dopo la scuola ora non può uscire a giocare, perché non lo mandano, e se ne sta tutto il tempo a chiacchierare con il suo animale che normalmente neanche considera. Fanno dei discorsi fenomenali, giuro. E zam, la storia ce l’ho vista tutta. Tanto per dirne una. Ora rubatemela, mi raccomando.

 

Ed ora spiegaci i dettagli tecnici: ti organizzi la giornata in funzione della scrittura, scrivi a getto, a scaletta, senza rumore, con la musica in sottofondo...

No, no, scherzi: niente musica, niente rumori. E scrivo a getto, sì. Dato il mio lavoro, riesco a ritagliarmi delle belle parentesi da dedicare alla scrittura, a patto di rispettare le scadenze. Di solito scrivo la sera, andando avanti fino a notte fonda.

Prima di questo hai pubblicato altri libri per Voras, Historica, Effequ, Il Foglio. In cosa pensi che la tua scrittura abbia subito un’evoluzione?

Sicuramente ho affinato le voci. E poi la sperimentazione continua sui registri narrativi, di certo ha portato qualche risultato. Ma anche questa è una piccola bega che va guardata per bene: sono dell’idea che un bravo autore debba essere coraggioso, e cercare di non riproporre dei copiainolla dei propri lavori. Io ho sempre cercato di farlo, nel limite delle mie possibilità. Ogni mio romanzo è diverso per approccio, tema, stile, registro, voce… Però è bellissimo quando qualcuno comunque non ti molla e anzi riconosce la mano di fondo.

Questa è una condizione che non si sposa bene con i “canoni” editoriali italiani: se fai un bel colpo con un libro, gli editori tendono a chiederti di stare sulla linea, per consolidarla. Ma sarebbe come se adesso dovessi scrivere un altro I Cariolanti, per dire, e proprio non m’interessa. Magari più avanti, comunque prendendo quella stessa voce e girandola su un altro versante. I romanzi li sento, li vivo, come capitoli chiusi, a sé stanti. Capisco che è rischioso, anche per l’eventuale aspettativa di un lettore che magari ha letti I sassi e gli è piaciuto, e poi compra I Cariolanti e si ritrova in mano tutta un’altra cosa. Secondo me la vera vittoria sta proprio lì: prendere quello stesso lettore e scaraventarlo in un mondo diverso. E farcelo stare bene.

 

Cita tre maestri e spiega il loro shining

Agota Kristoff. Ne La trilogia della città di K ti porta in un vortice di deviazione che ti spappola le ossa. È lucida, cattiva, vera. Dice bene Manganelli, nella quarta di copertina che ho io: “Una prosa perfetta, che ha l’andatura di una marionetta omicida”. Quando finisci di leggere, hai l’impressione che qualcuno ti sia entrato in casa mentre eri in cucina.

Amy Hempel, che sto finendo di leggere ora. È un bisturi. Ti rovescia dalle risate, e alla fine sei lì che piangi e non capisci neanche perché – sì, proprio come dice Chuck, provare per credere. Mi piacerebbe tantissimo che la narrativa cominciasse a girare per bene in questa direzione anche in Italia.

Donald Ray Pollock. È vibrante, cattivo, dolcissimo. La sua luccicanza è: la normalità. Te la spara addosso in un modo disarmante.

 

Progetti?

A breve – entro la fine di marzo – consegnerò il nuovo romanzo a Elliot; se tutto va bene, spunterà in libreria a giugno o giù di lì. Elliot mi ha prestato per fare anche altre due partite: una è il libro a cui sto lavorando parallelamente, un testo sui Noir Désir che Luigi Bernardi mi ha commissionato e che uscirà a ottobre per Perdisa nella nuova collana Rumore Bianco. È un lavoro che Bernardi mi ha proposto come un fulmine a ciel sereno, e l’idea di raccontare questa band che amo da sempre mi ha subito esaltato. È un modo, anche per me, di ripercorrere strade, eventi, anni di musica. L’altra bella partita è il racconto La Comune dei Sentimenti, che sarà presente nel Best Off 2011 di Minimum Fax. Inoltre, il prossimo mese uscirà la terza edizione de I sassi. Poi c’è la promozione de I Cariolanti, che non abbassa la guardia, anzi. E se ci scappa, vorrei fare anche qualche viaggio arretrato.

 

Ci saluti con una citazione estrapolata dal tuo libro?

È l’incipit, che mi sembra abbastanza rassicurante:

Se non mangio tutto poi arrivano i Cariolanti. Quando li sogno sono in due, un uomo e una donna vestiti male, scavati fino all’osso e con tutti i capelli appiccicati sulla faccia. Camminano strascicando i piedi nudi, sporchi di sangue e terra. E dita bitorzolute, e braccia lunghe, anzi lunghissime, fino alle ginocchia. Lunghissime e secche. I Cariolanti si chiamano così perché si tirano dietro un carrettino sgangherato, sopra c’è un lenzuolo che una volta era bianco ma che adesso è tutto zozzo e logoro, pieno di patacche schifose. Da là sotto a volte spuntano dei piedini di bimbo. I Cariolanti hanno sempre fame. Se a cena qualche bimbo viziato non mangia tutto, di notte arrivano loro, ti prendono e ti portano via per mangiarti vivo nella loro tana.