Difficile dire qualcosa che non sia già stato detto su Avatar, creatura che vede oggi, e soltanto oggi, la luce perché solo e soltanto oggi la tecnologia ha consentito a James Cameron di fare quello che andava fatto, riuscire cioè a far collimare ciò che aveva immaginato con ciò che era umanamente possibile mostrare su uno schermo.
Cameron è stato sempre una sorta di Kubrick “minore” (da intendersi nel modo più assoluto come un complimento…), impressione rafforzatasi dopo la scomparsa improvvisa di Kubrick nel marzo del 1999.
D’altra parte i rimandi tra i due non mancano, dai più curiosi, ad esempio il lasso temporale che separa Avatar da Titanic, dodici anni, è lo stesso che intercorse tra Full Metal Jacket ed Eyes Wide Shut, a quelli più seri, ad iniziare da quanto riferisce Cameron e cioè la visione di 2001: Odissea nello Spazio lo spinse ad abbandonare il proposito di fare il disegnatore di fumetti spingendolo ad intraprendere la carriera di regista, per proseguire con la riflessione su come Cameron sia uno di quei registi in possesso di una visione del cinema “in grande”, una visione cioè capace pellicola dopo pellicola di spostare un po’ più avanti il senso del “già visto” così da fare invecchiare di colpo tutti quei riferimenti visivi con i quali si era abituati a fare i conti. In altre parole il cinema per Cameron “…non è solo un mezzo per guadagnarsi la vita, ma anche uno strumento idealistico con cui leggere il presente e progettare il futuro (Ezio Alberione, James Cameron, in Hollywood 2000. Panorama del cinema americano contemporaneo. Autori, Le mani, 2001, pag. 58).
Ovvio quindi che le attese riguardo ad Avatar fossero altissime, per quanto i promo che via via si sono susseguiti non ci avessero impressionato più di tanto.
Visto il tutto (in 3D, il che lascia aperta l’opzione no-3D…), verrebbe voglia di sottrarsi all’arduo compito di esprimere un giudizio magari per non doversi rimangiare quanto appena detto sullo stesso Cameron. Se l’idea di partenza intrigava, con il marine paraplegico Jake Sully (Sam Worthington) in missione sul pianeta Pandora dove riacquista l’uso delle gambe grazie ad progetto chiamato Avatar e che consiste nel far migrare la mente di Sully nel corpo di un Na’vi, la specie umanoide nativa di Pandora, è lo sviluppo, pur nel tripudio di effetti visivi, che lascia freddi e distanti, anzitutto perché procede per cliché manichei (buoni-buoni, cattivi-cattivi, senza sfumature, senza mediazioni, senza contaminazioni…), secondo perché difetta quanto ad originalità, somigliando come fa, troppo e troppo da vicino a tante altre storie già raccontate da tanti altri film, dai quali stavolta Cameron sembra aver pescato a piene mani. L’elenco, lunghissimo, anche se non si discosta dal genere per antonomasia del cinema americano, il western, annovera in ordine sparso Un uomo chiamato cavallo, Soldato Blu, Il piccolo grande uomo, L’ultimo dei Mohicani (quello di M. Mann).
Tralasciando i messaggi che abbondano, ecologisti, antimperialisti, di autodeteminazione dei popoli spalmati lungo la vicenda, tutto molto nobile per carità, ma anche con una quota non trascurabile di retorica, l’unico momento veramente riuscito di Avatar (ma anche in questo caso è possibile rintracciare un precedente identico in Forrest Gump…), l’unico dove la tecnologia avanzatissima riesce a fondersi per una volta con l’emozione pura, è l’ebbrezza cinetica che coglie Sully nel preciso istante in cui si risveglia per la prima volta nel corpo del Nav’vi. Il passaggio dal barcollio iniziale al controllo corporeo sempre maggiore e che culmina nella corsa sfrenata, sfiora “il sublime”.
Per il resto il film segna il passo, ben lontano dal capolavoro di cui si dice...
Nove candidature alla prossima (7 marzo) notte degli Oscar: film, regia, fotografia, montaggio, scenografia, suono, mix sonoro, effetti speciali visivi, colonna sonora.
Post-scriptum
Nel forum di Thriller Magazine Michelangelo, con una sua “ficcante” osservazione, mi rimprovera di aver passato sotto silenzio il tema portante di Avatar; l’avatar quindi...
Secondo Michelangelo la fuga da un corpo divenuto oramai inabile per approdare ad un altro, stavolta abile, starebbe ad indicare anche un altro tipo di percorso, quello che conduce dal mondo reale ad un mondo “altro”, quello del cinema-sogno.
Siccome l’osservazione non è di poco conto e siccome a quella di Michelangelo si è aggiunta anche quella di Fidi (un ringraziamento ad entrambi…) cercherò nelle prossime righe di chiarire la questione.
Sul finire della recensione (che come la maggior parte delle recensioni paga spesso un prezzo molto alto riguardo alla completezza, prezzo dovuto sia ai limiti intrinseci dell’estensore sia alla “fretta” con la quale si cerca di mandare il “pezzo” on line il prima possibile e molto spesso con un’unica visione alle spalle…), notavo come l’unico momento riuscito del film era a mio avviso rintracciabile nel primo risveglio di Jake Sully nel nuovo corpo, quindi in piena e totale esperienza “avatar”. Pertanto, per quanto forse in modo non approfondito a sufficienza, il tema del transito di una parte immateriale da un corpo ad un altro non mi era del tutto sfuggito.
Al contrario, e credo che Michelangelo sarà d’accordo, l’argomento in questione rimane nel film solo e soltanto uno spunto. Avatar, difatti, mi sembra procedere in modo molto superficiale sul tema in questione. I rapporti tra i due corpi, quello di Jake Sully e quello del Nav’vi che ne supplisce le mancanze, sono nettamente sbilanciati a favore di questo ultimo senza che ci sia una vera riflessione sulle due esperienze e su come si relazionino tra loro, a meno che non si voglia considerare tale i risvegli ora nel corpo umano ora nel corpo de Nav’vi, francamente poca cosa, in termini di “indizi visivi”, rispetto a quello che è lecito aspettarsi da un regista come Cameron tutt’altro che sprovveduto in termini di “consapevolezza delle mutazioni” e transiti vari, come mostrato con estrema lucidità in Terminator e Terminator 2 – Il giorno del giudizio (per fare due esempi…).
Stavolta mi sembra che Cameron abbia preferito di gran lunga giocare sul sicuro non discostandosi poi molto dal canovaccio del “rito di passaggio”, perché in definitiva cosa sono le vicende di Jake Sully sul pianeta Pandora se non il racconto di una iniziazione da umano a Nav’vi, esperienza interessante ma che consegna Avatar abbondantemente alla dimensione del già visto?
Un’ultima cosa riguardo al 3-D: date un’occhiata a quello di A Christmas Carol di Zemeckis, così, per un confronto…
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