Benvenuta Maria Teresa. Tu nasci come grande lettrice. Quando e come hai cominciato a pensare all’idea di passare dalla fruizione alla creazione? C’è stato un momento preciso? Come si è manifestato questo desiderio/bisogno?

Da bambina divoravo i libri e i (pochi) soldini che raccimolavo non bastavano a soddisfare il mio desiderio di lettura. Così quando ero a corto di libri scrivevo dei racconti che poi leggevo alla mamma. Roba strappalacrime, tipo “Cuore” di De Amicis. Poi, con un passaggio tipico dell’adolescenza, ho scritto delle orribili poesie di cui ancora mi vergogno. 

La modalità “scrittura” mi è servita sempre come mezzo privilegiato di comunicazione. Per fare un esempio me ne servivo nei momenti difficili con mia figlia adolescente: le scrivevo delle lettere che lasciavo in camera sua. Un certo pudore mi impediva di dirle cose che mi riuscivo di comunicare meglio per scritto. Funzionava.

Nella maturità mi è venuta voglia di cimentarmi con qualche cosa di più organico, ma ho scritto e scrivo tuttora per me. Sono io la lettrice delle mie storie.

Partiamo dalla tua esperienza. É difficile pubblicare, in generale, o è difficile il momento successivo alla pubblicazione, quel coacervo di coincidenze/promozioni/passaparola che danno visibilità al libro? Questo discorso si complica se si fa una differenziazione tra sessi?

Se partiamo dalla mia esperienza ti devo rispondere che non è stato difficile pubblicare. Forse ho avuto fiuto nello scegliere l’editore, “ Frilli”, ma “La morte torna a settembre” è stato accettato al primo tentativo. Il panico è arrivato piuttosto al momento della prima presentazione. In quel frangente ho realizzato quello che era successo e stava per succedere e mi è venuta la tremarella. Ma sono una temeraria: mi è passata subito.

Se parliamo in generale, però, devo dire che l’aspetto più difficile, se si è superato lo scoglio di trovare un editore disponibile e serio, credo sia quello di “farsi leggere”.  Ieri mi trovavo nella libreria Feltrinelli a Genova, nella sede rinnovata da poco. Un punto vendita di quattro piani. Montagne di libri a perdita d’occhio. Come distinguersi in una offerta così vasta di proposte? Come convincere il lettore a scegliere proprio il “tuo” libro in quel mare di copertine allettanti?

E per rispondere alla tua ultima domanda, non credo sia più difficile per una donna pubblicare o farsi leggere e avere successo. Credo sia più difficile scrivere. Una donna ha sempre troppi compiti all’interno della società e della famiglia che non gliene lasciano il tempo o il modo.

Esiste una peculiarità della scrittura al femminile?

Ti potrei rispondere con un luogo comune che sento spesso: “Non esiste la scrittura maschile o femminile, ma la buona o la cattiva scrittura”. Io però credo che le autrici siano, per loro natura, più capaci di introspezione, se paragonate ai colleghi maschi. Ma forse anche questo è un luogo comune.

Hai dichiarato che i gialli hanno molte analogie con le pubblicazioni scientifiche. Ci spieghi in che senso?

Per prima cosa hanno in comune lo stesso processo logico, ma le analogie sono molte di più. Si parte da un dramma, un evento che perturba della realtà: il delitto, nel primo caso, una malattia grave di cui scoprire la causa o il rimedio, nel secondo. Il secondo step è, in entrambi i casi la raccolta dei dati. Occore in entrambi i casi  rigore scientifico, non bisogna trascurare nulla, ma avere anche un po’ di fortuna e buon intuito. Necessità avere anche una certa dose di pazienza e umiltà. Acquisiti gli elementi necessari, per deduzione, si formula la soluzione finale. La scoperta dell’assassino, nel giallo, quella dell’agente che provoca la malattia, o il modo di annientarlo, nella ricerca scientifica. Lo schema è volutamente semplificato, ma, credo,  renda l’idea.

Vorrei aggiungere che oggi, rispetto al giallo classico, viene apprezzato di più il noir, dove lo scoprire il colpevole non basta a riportare la normalità nella realtà perturbata. Il  vulnus che il male ha prodotto resta amaramente sospeso e aperto e l’indagine ce ne fa scoprire le cause e gli effetti, ma non i rimedi. Anche per le pubblicazioni scientifiche succede un po’ la stessa cosa. Avere descritto  le cause di una malattia non è sufficiente a fare scomparire quel male dal mondo. Qui però il discorso si fa lungo…

Partiamo dal tuo romanzo d’esordio, “La morte torna a settembre” (Frilli, 2008). L’amenità della natura,  la serenità della situazione di partenza: una coppia consolidata e affiatata, una bella famiglia. Sullo sfondo –ma poi risalirà in primo piano– un paese coi suoi controsensi, i suoi rancori, le sue rabbie. Come è avvenuto, tecnicamente, questo passaggio di messa a fuoco?

Nasce dalla consapevolezza che niente è come sembra. La tesi da dimostrare è che dentro ognuno di noi e  dietro al più tranquillo panorama esterno, si nascondono angoli bui più o meno profondi.

A volte restano sepolti per lungo tempo e poi un piccolo evento li fa affiorare e basta illuminare la scena con la luce giusta per individuarli chiaramente. L’idea è che niente sia più inquietante del delitto che avviene nella più trira, domestica, banale, tranquilla  “normalità”. Partendo da luoghi e personaggi totalmente privi di patos, si passa,  man mano che si procede nella storia a scoprire i segreti, le miserie, le inquietudini, i deliri che li percorrono o di cui sono vittime.

L’ambientazione nell’Appennino Ligure è un must di quasi tutta la tua produzione. Ne “Le tracce del lupo” si parte da qui ma si arriva ad Alessandria. Qual è lo shining di questa città?

Ti posso dire quale è stato per me. Potrei limitarmi a dirti che la scelta di questa città era funzionale alla mia storia. Mi serviva una città di media grandezza della provincia italiana, dove i pregiudizi avessero spazio credibile. In realtà ho subito una fascinazione. Mi ha fatto riconciliare con il “Barocco”, uno stile che non amo, per la leggerezza con cui è rappresentato. Mi è piaciuto il colore dei materiali con cui sono costruite le sue chiese. Pensa a me che vengo da una città, Genova, tutta in grigio, bianco e nero, pietra di Promontorio e Lavagna. Mi sono trovata davanti queste chiese in cotto, dalla calda tonalità rosa, me ne sono innamorata. Aggiungi che è una città di pianura. Per me abituata ai sali e scendi dei vicoli, delle crose e delle strade collinari, una pacchia. L’ho descritta come una turista che la visita. Del resto Maria,  la protagonista di “Le tracce del lupo”, rispetto ad Alessandria è un po’ una turista in visita.

Nella tua produzione, e in particolare ne “Le tracce del lupo”, si evince chiaramente il tuo vissuto da biologa. Come hai rapportato alla narrativa le informazioni scientifiche?

Le mie informazioni scientifiche sono di due tipi. Quelle che riguardano la natura mi appartengono così tanto che fluiscono senza che me ne accorga dentro le mie narrazioni. A quelle di tipo tecnico ricorro il meno possibile, perché la “mia investigatrice” si affida soprattutto  a indagini di tipo umano. Le sue osservazioni sono scientifiche solo nella struttura del ragionamento, ma privilegia il contatto con le persone, indaga l’animo umano, ascolta i racconti, non disdegna il contributo di testimoni molto “improbabili” come vecchi un po’ fuori di testa o bambini.

Il tuo ultimo romanzo è invece ambientato a Genova, dove tu risiedi, dove ti sei laureata in Scienze Biologiche e nel cui più grande ospedale cittadino hai lavorato. Ti chiedo ora qual è lo shining del capoluogo ligure.

Quante pagine ho a disposizione?

Ci sono mille aspetti della città dove abito da tanto tempo che affascinano, ma mi limiterò a parlare di quello che ha fatto sorgere l’idea di base di questo terzo libro. Abito in un palazzo del ‘400  accanto al Duomo di San Lorenzo. Scendo le scale e mi trovo circondata dai palazzi più belli: Palazzo Ducale, Palazzo Giustiniani, Palazzo Spinola e molti altri. Cammino tutti i giorni nelle stesse vie percorse 500 anni fa da Andrea Doria, il Doge che fece grande la Serenissima Repubblica di Genova.

A 100 metri da casa mia Marco Polo fu imprigionato in attesa che i veneziani pagassero il riscatto. Alla stessa distanza nel Palazzo delle Compere i genovesi, 600 anni fa,  hanno inventato la banca, la carta moneta, i BOT, financo la finanza creativa di cui si vanta un noto personaggio politico dei giorni nostri. Sono circondata dalla storia, immersa nella storia. Respiro la storia. Perché la mia investigatrice dovrebbe restarne immune? La sua curiosità la porta a rovistare vecchie carte e….

Vorrei citare un brano molto interessante dall’incipit de “La morte torna a settembre”: «Leggendo molti romanzi, mi sono convinta che c’è bisogno di un personaggio nuovo. Vedi, i protagonisti delle storie, gli investigatori, sono sempre dei figuri un po’ loschi, male in arnese, in genere hanno il fegato spappolato dal troppo alcool e il cuore spezzato da una donna che hanno amato alla follia e li ha traditi. Da allora vivono soli, in appartamenti squallidi, dormono poco, mangiano porcherie, sciupano femmine piene di curve, fanno fessi i poliziotti e, suscettibili come sono, fanno a cazzotti tre volte al giorno. Quando leggo le loro avventure patisco per tutte quelle notti insonni, mi viene mal di stomaco per quello che mangiano, mi viene mal di testa per la quantità spropositata di alcool che bevono e per le botte che prendono, mi viene l’orticaria quando sudano, piango quando la pupa di turno li abbandona. Se invece il protagonista è un poliziotto, allora gli hanno ammazzato la moglie, la figlia e il cane. È orfano di entrambi i genitori che sono morti in un incidente, il suo compagno di pattuglia si è fatto sparare per colpa sua e il suo capo lo vuole incastrare perché lui ha scoperto che si prende la mazzetta dal boss. Ma alla fine vendica la moglie e il compagno, smaschera il boss e, senza cedere alle lusinghe della bella fanciulla bisognosa di aiuto e di affetto, si allontana solo nella notte. Qui la mia sofferenza aumenta a causa delle sopraccitate disgrazie che il rude poliziotto annega anche lui nell’alcool non riuscendo tuttavia a dimenticare. Nemmeno io. Insomma sono stereotipi, non c’è fantasia, non ci sono elementi nuovi. E non ci sono più i Poirot e le Miss Marple! Allora ho pensato di creare un personaggio nuovo.» Ora ti rivolgo alcune domande che forse interessano ai lettori, anche se le risposte si trovano direttamente nelle righe successive del tuo libro. Non ne salviamo proprio nessuno di questi investigatori dannati? O meglio, al di là dell’atmosfera cupa che circonda molti di loro, c’è qualche personaggio, tra gli investigatori dei gialli odierni, che invece, proprio in virtù della fantasia (anche in negativo) ti ha colpita?

Odio gli stereotipi e trovo che il noir italiano sia molto cresciuto in questi ultimi anni proponendo buoni personaggi. Mi piace e mi diverte uno in particolare, l’ispettore Coliandro creato dalla penna di Carlo Lucarelli  (“Nikita”, “Falange armata” e “Il giorno del lupo”). Le sue buone qualità di onesto poliziotto sono stemperate in un comportamento maldestro, a causa del quale incorre in guai a non finire. È un personaggio umano, ironico, dissacrante, molto accattivante. Non si sa come arriva a risolvere i casi, ma il merito non viene mai attribuito a lui. Neppure con le donne ha molto successo. Anche nella fiction televisiva ho trovato divertente il personaggio. Gli investigatori dannati, invece, non riscuotono le mie simpatie. Questione di gusti.

Maria Viani è senza dubbio un’ “investigatrice” atipica. In primis perché non è un’investigatrice nell’accezione professionale della parole. Come Jessica Fletcher, lei si trova in una situazione contaminata dal delitto e tenta di risolvere l’enigma. Oltre a questo, in cosa consiste la sua atipicità?

Le investigatrici donne nel panorama della letteratura noir non sono molte e le poche che ci sono sono donne particolari. Anch’esse, come i loro colleghi maschi, vengono descritte a tinte forti. Basti pensare alla  Kay Scarpetta di Patricia Cornwell o alla Temperance Brennan di Kathy Reichs. L’atipicità di Maria Viani consiste nell’essere una donna “normalissima”. Insomma l’equazione è: donna atipica sta a investigatrice tipica, come donna tipica sta a investigatrice atipica! Mi sono spiegata?

Però per favore non paragonate la mia Maria a Jessica! Maria non è una zitella, è molto mediterranea e decisamente più “femminile”.

Certo, il parallelismo con la Jessica Fletcher  era riferito solo alla sua atipicità: entrambe non sono nè poliziotte nè investigatrici, ma hanno grande intuito (e buon senso!). Quanto (e cosa) di autobiografico e quanto di fittizio hai riportato in questo personaggio?

È tutto talmente mescolato che neppure io riesco a distinguerlo. Attingo da quello che mi circonda. faccio tesoro dei racconti delle persone. Rubo caratteri ed episodi alla vita mia e dei miei amici, tanto che da un po’ di tempo quando entro nelle loro case mi guardano sospettosi, terrorizzati che parli di loro in qualche racconto. Così ho fatto anche con lei. Sicuramente all’inizio Maria ed io coincidevamo quasi perfettamente. Col tempo e procedendo nella scrittura è diventata sempre più indipendente e  prepotente e nel terzo libro mi è completamente sfuggita di mano.

Progetti?

Sto scrivendo il quarto noir, ma sto anche pensando a qualche cosa di completamente diverso. Il problema è che il mio editore non vuole sentirne parlare. Vedremo.

 

Ci saluti con una citazione dal tuo ultimo libro?

Vi farò omaggio dell’icipit:

«Sulle prime non prova particolare emozione. Il manoscritto è rifasciato con una carta spessa. Sotto si indovina una sorta di copertina di cartone. Nella  scheda sta scritto che risale al 1550. “Processo a Gelasio Spalla, per l’assassinio di Lizzio Spalla  e di Donata  Monticelli di Bartolomeo”.

Si reca con il suo bottino al tavolo di lettura. Si siede, accende la lampada, e apre il libro. Sente sotto le dita la grana della carta

Volta a caso le pagine e legge: …