Tra la pubblicazione di “Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi gnostici tra Kafka e Cioran” (inEdition, 2008) e quella de “Il mistero dell’Impero Azzurro” (inEdition, 2009) intercorre esattamente un anno. Da riflessioni filosofiche in veste narrativa (“Decomposizione di Dio”) a “letteratura giudiziosa” per ragazzi. Come è avvenuta la scelta del passaggio tra un genere e l’altro?

Rivelo a te e ai lettori di “Thriller Magazine” un piccolo segreto. I primi appunti de “Il mistero dell’Impero Azzurro” sono antecedenti a quelli del racconto (“Il pellegrinaggio ad Atar’sh”) con cui si apre “Decomposizione di Dio”. Del resto, alcune idee che poi confluiranno negli “Apologhi” che costituiscono la seconda parte di “Decomposizione di Dio” sono anteriori anche alla progettazione de “Il mistero dell’Impero Azzurro”. Si può dunque dire che non c’è soluzione di continuità tra le due opere, non c’è un’evoluzione. Considera pure che nella mia poetica è presente l’idea di approssimarsi il più possibile alla perfezione formale e stilistica, per cui ogni mio libro non solo si aggira sempre sulle 100 pagine, ma ha una gestazione e, specialmente, un lavoro di revisione lunghissimi. In pratica, passano anni dall’idea, dagli appunti, e soprattutto dalla prima trascrizione (spesso manoscritta, su quadernetti) alla stampa. Pertanto, è ovvio che molti lavori procedano parallelamente. Se avrò mai un critico letterario che studierà le mie opere, quello che ho appena detto gli tornerà utile per non scervellarsi troppo. Semmai, potrà dire che sono schizofrenico.

Oltre al sottofondo gnostico ed epicureo del primo libro, oltre alle infinite possibilità di spazio accordate alla fantasia nel secondo, oltre all’investitura sacrale della scrittura che si evince da tutta la tua produzione, il male è il grande motore che muove il conflitto. Se il lettore è interessato al tuo pensiero sul male, i tuoi libri offrono interessanti chiavi interpretative. Ti rivolgo però alcune domande e ti chiedo di rispondere in sintesi a ciò che comporterebbe discussioni estese. Se un bambino ti chiedesse: “Cos’è il male?”, cosa risponderesti?

Io amo i bambini e gli animali: perciò non risponderei a una simile domanda... tergiverserei e farei una passeggiata all’aria aperta con loro.

Quale idea ti sei fatto sulle origini del male?

Non una, ma le tante ipotesi che trovi in “Decomposizione di Dio” e che riprendono le tesi gnostiche (ma anche di altre religioni): è suggestiva soprattutto l’idea di un Dio-demiurgo malvagio o, se esiste un Dio buono, egli è impotente rispetto a una forza che probabilmente è separata da lui.

Tutti gli scrittori, gli artisti, si sono posti il problema e, di fronte ad Auschwitz o al dolore di un bambino, non possono accontentarsi di interpretazioni rassicuranti. L’orrore e la sofferenza sono gli stimoli e gli strumenti filosofici più efficaci e “veri”.

L’uomo ha un barlume di spazio decisionale rispetto al male?

Certo, ma il male è più potente e annientante e comunque, se è dentro il demiurgo, lo è pure dentro ciascuno di noi. Come si legge nella quarta di copertina di “Decomposizione di Dio”, “il buio accerchia l’esistenza e la strazia, rendendo fioca e comunque impercettibile la voce umana”. In ogni caso, tutto è fragile e precario.

Il tema del viaggio è una costante di entrambe le tue opere. In “Decomposizione di Dio” si tratta di un’allegoria, che, a mio avviso, molto ha in comune con il cammino dantesco, se non negli epiloghi, almeno nell’anelito verso una luce che indori la consapevolezza del limite umano. Ne “Il mistero dell’Impero Azzurro” il viaggio pare al lettore più ameno, ma è sempre occasione per spunti di riflessione molto profondi. Una domanda personale: qual è il viaggio più significativo che ricordi?

Quello compiuto in qualche sogno... o incubo. Ammiro chi ama viaggiare, scrollandosi di dosso per qualche giorno o settimana il peso dell’esistenza o almeno della quotidianità. Io, dopo qualche ora, massimo qualche giorno, sento di nuovo, anche fossi in un paradiso tropicale, il tanfo e l’angoscia del creato e dell’esistenza. In ogni caso, “non c’è bisogno di muoversi, di spostarsi fisicamente, per viaggiare”.

Il paesaggio e la letteratura: in “Decomposizione di Dio” apparivano visioni apocalittiche, miraggi in deserti abbacinanti e l’inferno in agguato dietro la natura; ne “Il mistero dell’Impero Azzurro” è come se lo spazio si dilatasse dal particolare (il lago, i funghi, il bosco) all’universo intero (galassie, cosmi, nebulose). Ti chiedo di approfondire il rapporto, nei tuoi scritti, tra letteratura, visione e metafora.

La mia letteratura (se così si può definire) è più fondata sulla vista e sull’immaginazione che sulla “scrittura”. Ne consegue che la visione è epifania, illuminazione. Come i simbolisti francesi della seconda metà dell’Ottocento, ritengo che la “Natura” ci invii messaggi misteriosi che, almeno in determinati stati d’animo, ci colpiscono, ci fanno capire la straziante e meravigliosa condizione, nostra e dell’universo. Così come la musica, la più eterea e impalpabile delle Arti. Sapessi dipingere o suonare, forse non scriverei. I sensi come l’olfatto, il gusto, il tatto, l’udito, la vista (ma non quella attenta e controllata, bensì quella torpida), per non parlare dell’eros, permettono di conoscere la realtà, di entrarvi, molto meglio delle qualità “inferiori” dell’uomo: l’intelligenza, la ragione o ancor peggio, la razionalità, la riflessione e la maledetta “voglia di capire”.

 

Quali energie sono state coinvolte durante la stesura di “Decomposizione di Dio” e de “Il mistero dell’impero azzurro”?

La spiritualità, il misticismo, la malinconia, la ricerca della bellezza... e l’ironia.

Il tema della conoscenza ha un peso preponderante. Una conoscenza che va di pari passo con la non-conoscenza. Si può dire che il tuo libro sia un omaggio alle possibilità?

Tutto è possibile. L’orizzonte degli eventi, delle possibilità, è infinito: peccato che durante la nostra breve vita ci capiti di assistere solo raramente a qualche “bel miracolo”, che riguardi noi come individui o l’umanità intera.

Mr Mister, il protagonista de “Il mistero dell’Impero Azzurro”, è l’agente segreto più famoso del mondo, ma è un agente atipico: un normale ragazzino «né alto, né basso, né grasso, né magro», dotato però di una grande sensibilità. Una sensibilità intesa come curiosità da fanciullino pascoliano ma anche come il potere di sentire (dall’etimo "sentio") ciò che lo circonda. Ritieni che la nostra epoca sia povera di questo genere di sensibilità o che si tratti di una mancanza che travalica la storia?

Ritengo che la nostra epoca abbia travolto anche quella sensibilità, che, pur vilipesa e balbettante, pur celata e minoritaria, costituiva comunque una speranza per l’umanità e un valore condiviso da molti. Oggi la volgarità, la brutalità, la violenza non sono solo tollerate, ma assunte come valori, quando non positivi, certo “necessari”. È il parto disastroso della comunicazione televisiva, della massificazione, della cosiddetta “globalizzazione”, dell’ignoranza imperante.

Ne “Il mistero dell’Impero Azzurro” la voce narrante si rivolge spesso al lettore in un’interazione coinvolgente e frizzante. C’è un patto di fondo col lettore e/o gli viene lasciata totale libertà?

Nel caso di questo libro ho cercato – e non so se ci sono riuscito – di rendere accattivante il libro anche a un lettore di 12 anni, pure interagendo con lui.

 

Ci sono state delle letture di riferimento? Perché in alcuni momenti, ad esempio, mi tornavano in mente degli echi de “Le città invisibili” di Calvino...

Ogni scrittore che si rispetti quando scrive non fa altro che rimescolare le proprie letture: la letteratura “colta” – e lo pensava Borges per la sua biblioteca di Babele – non è altro che un solo libro.

Ho amato Calvino, così come Borges, Kafka, Joseph Roth e tutta la letteratura mitteleuropea, per non citare Camus, Walser, Lernet-Holenia, Daumal, Meyrink, Hrabal, Mishima, Buzzati, la letteratura fantastica con Lovecraft in testa, oltre che i "classici" Pascoli e Leopardi; e i "cattivi maestri" come Evola, Eliade, Guénon, Nietzsche, Cioran, Sgalambro, Gurdijeff... Ma, poiché la mia arte è “visiva”, rimango in estasi di fronte ai film di Tarkovskij, Herzog, Wenders, Greenaway... Per non parlare dei musicisti... In ogni caso, in fondo a “Decomposizione di Dio” c’è una “gionta” (“Da non leggere, da non vedere, da non ascoltare. Per un viaggio oltre ogni limite estremo: biblio-icono-disco-filmografia sragionata e arrischiata”), nella quale è dettagliatamente e minuziosamente indicato ciò cui mi ispiro.

I nomi dei protagonisti, ma anche dei luoghi, sono molto evocativi: il Regno Grigio, il colonnello Rapax, Solaris... Se ti chiedessi di trovare un nuovo nome per: l’Italia oggi, la scuola oggi, la superficialità oggi, cosa mi diresti?

I nomi servono per designare qualcosa, non il nulla. Citando scorrettamente Wittgenstein, “ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Salvo ovviamente la scuola, che potrei definire come “L’ultima isola” o “L’estrema fortezza dell’umanità”. Il problema è che a volerla distruggere sono proprio le forze che dovrebbero salvaguardarla, permettendo ai docenti di fare quello che sanno e dovrebbero fare: insegnare la propria disciplina mediante un rapporto franco e umano e non essere annientati da riunioni inutili e adempimenti burocratici.

Il regno Grigio pare che sia lacerato da una discrasia tra le sue velleità imperialistiche e la situazione concreta. É tipico delle smanie di potere basarsi su fondamenta fragili?

Certamente. E non solo del potere. Meno si vale, anche come individui, più si hanno velleità che non corrispondono alla “situazione concreta”.

Tu sei un professore di Lettere. Quanto ha influito la tua professione docente con l’attività di scrittore e viceversa?

In entrambe le direzioni, molto poco. In comune le due attività hanno l’amore e la passione che bisogna provare per esercitarle, ma il legame finisce qui. Chi fa l’insegnante di Lettere deve innanzi tutto insegnare a leggere, scrivere, parlare, ascoltare, e poi ad avere rispetto per se stessi e gli altri (che, in ultima analisi, sono valori identici e che vanno a braccetto). Poi viene il tentativo di far amare la bellezza. In ogni caso, sarei uno sciocco se pensassi che un mio scritto possa aiutare a raggiungere tal obiettivi. Occorre modestia, rispetto e affetto per gli allievi; e talora è sufficiente non dimenticarsi del tutto di come anche noi alla loro età eravamo fragili e “stupidi”. L’ironia e l’autoironia possono servire, a volte.

I tuoi allievi hanno letto i tuoi libri? Cosa dicono?

“Decomposizione di Dio” è inadatto a un pubblico giovane, sia per la durezza della Weltanschaung, sia per i riferimenti filosofici, sia per la scrittura, non facilissima. “Il mistero dell’Impero Azzurro” è appena uscito. Pare piaccia. Soprattutto per la fantasia e la leggibilità.

Stai già pensando a un nuovo libro?

Ogni scrittore ha sempre qualcosa in testa, anche se forse sarebbe opportuno che per una ventina d’anni nessuno scrivesse più, in modo che questo mercato dei 200 libri che escono al giorno si rarefacesse e tutti – lettori e scrittori – riacquistassimo il senso della sacralità della scrittura e della narrazione. Sto lavorando su racconti, alcuni persino di molti anni fa, che tutti insieme narrano di un “Altrove Assoluto”. Per ora sto pensando di titolare il libro “Trasparenze tentacolari”.

Ci saluti con una citazione da una tua opera?

Beh, allora offro ai lettori di “Thriller Magazine” una primizia, cioè un assaggio del racconto “Cilindriche prigioni di acciaio”, che dovrebbe essere incluso nella prossima raccolta:

Per settimane il vento del deserto ci impediva di uscire, di allontanarci dalle Prigioni. Esso, infatti, agitava la sabbia così violentemente da rendere impossibile la marcia degli uomini e dei mezzi meccanici, che sarebbero rimasti ingolfati dai minutissimi granelli di sabbia. I camerati posti di guardia alle celle faticavano a tenere gli occhi fissi sui cilindri d’acciaio, com’era loro compito, infastiditi, nonostante la visiera, dai granelli di sabbia, spesso sottili come polvere. In alcuni momenti il vento vorticava bizzarramente, facendo assumere alla sabbia strane forme in movimento. Vi era chi diceva di avere visto nei vortici sabbiosi dei leoni pronti all’assalto, chi una bella e imponente donna che avanzava, chi sconosciuti castelli dalle torri vertiginose.

Durante uno di questi giorni di vento furente, si tenne la cerimonia funebre di un nostro compagno morto il giorno prima a causa di una sconosciuta, incomprensibile malattia. Il corteo, con alla testa il feretro portato a spalla, avanzava a stento, cercando di colmare le poche decine di metri che separavano la caserma dal piccolo cimitero militare delle Prigioni. Una volta giunti faticosamente tra i tumuli, si tentò di scavare una buca per seppellire il cadavere. Ma ogni volta il vento la riempiva di sabbia o la devastava o, una volta calato il feretro, impediva che fosse ricoperta. Alla fine una ventata più forte delle altre sconquassò il legno della bara e il cadavere verdastro venutone fuori sembrò muoversi di vita propria. Il comandante, allora, non potendo far riportare il soldato morto dentro la caserma per timore di infezioni, ben facili a scaturire nella calura di quei luoghi, ordinò di abbandonare il corpo là dove si trovava e di rientrare.

Quella volta la tempesta di sabbia durò per giorni e giorni, e per tutto quel periodo, dall’alto della caserma o delle torrette di guardia, intravedemmo il corpo del nostro camerata putrefarsi lentamente, ora ricoperto, ora scoperto, ora smosso, spostato, levigato, scarnificato, dal vento e dalla sabbia. Quando i turbini si esaurirono, il cadavere era ridotto a uno scheletro scomposto, col teschio rivoltato in giù.