Partiamo da te e dal tuo nome d’arte, Sacha Rosel. Come sei arrivata a scegliere questo nome delicato ed evocativo?
Il mio “nome interiore” (io preferisco definirlo così) è un augurio di grazia e armonia, racchiuse nella simmetria delle cinque lettere del nome che si rispecchiano nelle cinque lettere del cognome, e insieme un omaggio a mia nonna materna e al mio amore per il cinema.
Nella presentazione dell’opera “Carne e colore” e nella prefazione di Alfonso Amendola è stata sottolineata la componente pittorica dei testi. Puoi spiegare ai lettori di Thriller Magazine questa compenetrazione tra arte letteraria e visiva?
Nel periodo in cui ho scritto le poesie che poi sono confluite nella raccolta dipingevo. Tentare di esprimermi senza l'uso della parola era molto liberatorio e insieme frustrante – lo facevo da perfetta ignorante, visto che non ho mai saputo disegnare. Lo vedevo come un modo ulteriore per arrivare al nocciolo e all'essenza di me stessa, al suono primordiale. Era abbastanza logico che lo stare continuamente a contatto con i colori arrivasse poi a riversarsi sulle cose che scrivevo. Ancora adesso, pur non dipingendo da vari anni perché non ne vedevo più il senso, spesso mi ritrovo a scrivere di pittrici. Un mio romanzo inedito apparso on line sul sito Orient Express (ma che adesso non è più reperibile) parlava anche quello di una pittrice, ossessionata dal bianco.
Come già anticipato nel titolo, l’elemento colore riveste di luci e ombre ogni singolo componimento. Cos’è il colore per te?
Il colore per me è una pasta fatta di carne e sudore, porta dei sensi arrovellati, Yves Klein, resina dell'oblio. Ė quello che vorrei essere nella prossima reincarnazione: un colore a olio brillante, cangiante e inesauribile.
Ho trovato le tue poesie irresistibili. In due sensi. Da un lato trascinano nella lettura in virtù di una musicalità struggente, di uno stile pulito ma originale, di sapienti sovrapposizioni d’immagini sia nitide che sfumate. Dall’altro lato costringono alla riflessione. Perché sembra che quasi in ogni componimento si racchiuda il segreto della vita o si indaghi su di esso. E a tal proposito vorrei riportare l’inizio di Venice:
In preda a quest'universo oscuro
che è la terra,
le nostre carni s'intersecano
a mosaico,
carne dell'acqua,
tulipano di cancro
d'inconcretezze demolitorie.
Ti chiedo di approfondire quello che è per te il legame tra poesia e vita.
Vivere per me vuol dire scrivere, che non è tanto riflettere sul reale quanto creare una trasformazione del reale, un reale al di là da venire, o se vogliamo è un colloquio con le ombre dell'invisibile, gli spiriti senza pace ma anche le energie che alimentano l'universo e che continuano a circolare dopo che siamo morti e riapparsi in nuove sembianze nel ciclo di vita successivo. Col tempo ho imparato a non vedere più gerarchie tra poesia, narrativa e saggistica, anche se all'inizio la poesia assumeva per me il mezzo ideale per imprimere la visioni del presente sul bianco della pagina. Poi sono arrivate le voci dei personaggi, che chiedevano di entrare nel folto della carta, così ho cominciato a scrivere narrativa e lentamente l'ho trovata la forma a me più congeniale. Per anni ho sofferto sentendomi dire che la mia prosa era “poetica”, perché capivo che per chi la usava quella parola non era un complimento: se scrivi roba poetica “non hai mercato” e “sei troppo difficile”. Ma ho deciso comunque di proseguire, perché la scrittura mi è necessaria, e se questa necessità resterà senza visibilità o senza mercato, solo il tempo potrà dirlo (ma spero vivamente di no). In ogni caso, al di là del mezzo prescelto, la scrittura ideale per me è un reticolato di parole che facciano vibrare la pagina rendendola magica.
Vorrei citare gli ultimi versi dalla poesia “Curiosa”. Partendo da questi ti chiedo qual è per te lo shining della Cina:
Tu, la Cina.
Il rosso della tua voce,
i granelli di riso che piovono
dalle tue spalle nude,
denti bianchi e lucidi come muraglie,
le fate,
nei tuoi occhi.
Per me la Cina rappresenta l'universo dell'anima, oltreché una realtà a cui ho cominciato ad appassionarmi da adolescente, quando le pubblicazioni su questo meraviglioso paese erano molto difficili da reperire e il boom economico era ancora un'utopia. Da lettrice e studiosa autodidatta ho cercato di accostarmi a questo mondo parallelo che per molti versi sento più vicino a quello che mi circonda, e da cui ho cominciato molto presto a lasciarmi contaminare dal punto di vista filosofico, letterario e cinematografico. Anche se questo riguarda più la narrativa che la poesia.
Nel momento creativo, l’artista si catapulta in quello che sta scrivendo. Qual è la poesia che ti ha fatto più soffrire?
Essendo perfezionista e alla ricerca costante della parola “nuda”, scevra da ambiguità assolutiste ma anche dal chiacchiericcio banale del quotidiano, per me la scrittura richiede sempre una grande dose di autodisciplina, quindi direi che non esiste un componimento che mi abbia fatto penare di più rispetto agli altri, perché tutti a loro modo sono frutto di una riflessione durata più di dieci anni. Carne e Colore è nata come raccolta nel 1997, poi sono andata via via limandola cercando di trovare dei punti fermi in quelle che all'inizio mi sembravano essere delle mere sperimentazioni. Diciamo che, in generale, nell'approccio con la scrittura (non solo nella poesia) condivido quello che dice il poeta e studioso Alessandro Carrera: “la poesia è l'arte marziale in cui l'avversario siamo noi stessi”. Quando si ha a che fare con le parole, secondo me, bisogna riuscire ad andare sempre al di là del conosciuto e delle nostre stesse aspettative, o dei nostri tic. Il culto della bella pagina ad esempio è un mostro da cui cerco costantemente di fuggire, anche se essendo tendenzialmente petrarchista la perfezione musicale e formale è un demone da cui mi lascio volentieri sopraffare.
Quella che hai scritto con un sorriso?
Esiterei a parlare di “sorriso” vero e proprio. Una poesia a cui sono molto cara per le reminiscenze e le circostanze che mi hanno spinto a scriverla è Nuclear Rosebud, perché è dedicata al regista Andreij Tarkovskji, che io amo molto. Pensare ai suoi film o anche solo al suo nome mi suscita una dolcezza che forse si potrebbe assimilare al sorriso.
Quella che hai scritto con più amore e quella che hai scritto con più rabbia?
Stain/Stein è la poesia che mi ha tenuto annodata più tempo a sé. Anche qui c'è un riferimento cinematografico - il cinema per me a volte è una fonte d'ispirazione molto più forte della poesia o della narrativa - legato all'esperienza umana e mistica di Edith Stein com'è narrata nel film La settima Stanza, che mi ha emozionata profondamente. La rabbia è un sentimento che nella mia scrittura non entra mai, o comunque non la lascio entrare consapevolmente. Su questo ho abbracciato da tempo in tutto quello che scrivo - recensioni comprese - un detto del filosofo Gilles Deleuze, secondo il quale ha più senso scrivere dedicando il proprio tempo e le proprie energie ad autori o emozioni che ci piacciono, piuttosto che a demolire cose che detestiamo. Io ormai se un film o un libro li trovo brutti non li recensisco, e con la mia scrittura faccio la stessa cosa: cerco di vivere dentro le cose che vorrei vedere apparire nella realtà e di trasformarla, per così dire, piuttosto che criticare quello che vedo attorno a me. Ecco, se scrivessi dell'Italia contemporanea probabilmente butterei fuori tutta la rabbia latente che ho vivendo giorno per giorno, ma mi interessa esplorare il mondo possibile o quello dell'invisibile, non la volgare e barbarica cloaca che mi gira intorno.
Quali sono i tuoi poeti di riferimento del passato e del presente?
I miei poeti di riferimento in termini di stile e di contenuto sono essenzialmente tre: Paul Celan, Anise Koltz e Ingeborg Bachmann, ma sono poeti che ho letto dopo aver concepito la prima stesura della raccolta. Nel 1997 e dintorni i poeti che leggevo e che inevitabilmente sono confluiti in Carne e Colore erano altri: T.S.Eliot, Amelia Rosselli, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Andrea Zanzotto, Paul Eluard, poeti che adesso reputo un po' freddi, anche se Eluard lo sto rileggendo per divertimento. Celan non mi stanco mai di rileggerlo, le immagini che crea destano sempre uno stupore e una necessità che raramente trovo in altri versi.
Ti occupi anche di traduzioni e consulenze editoriali. Hai tradotto nomi come Sara Gran e Dan Simmons. Ci trovi un aggettivo per la scrittura di ciascuno di questi autori?
Degli autori che ho tradotto, Sara Gran e Dan Simmons sono gli unici che reputo degni di essere letti, sugli altri preferisco non commentare: il lavoro è lavoro, e a volte non puoi scegliere cosa tradurre e cosa no. Li trovo entrambi molto bravi, anche se Gran mi è piaciuta solo in quel libro, mentre l'altro che è uscito in Italia non mi ha convinto, ha una trama non molto consistente. Simmons è uno che conosce bene il mestiere ed è in grado di scrivere qualunque cosa nel “genere”, dal fantasy all'horror all'hard boiled. Io per l'appunto ho tradotto un suo hard boiled (anche il libro di Sara Gran in fondo lo era) ed è stato molto divertente.
C’è un altro autore che ti piacerebbe tradurre?
Sicuramente mi piacerebbe tradurre romanzi non di genere, o comunque libri che ti rimangano dentro nel linguaggio e nella carne senza limitarsi a esporre una trama lineare che ti scivola via come sabbia. Non mi piacciono i libri che si limitano a raccontare una storia: quando leggo, e quindi quando traduco, voglio parole che pulsano, i semplici fatti descritti con una lingua inconsistente e banale mi annoiano. Ci sono romanzi che ho letto per lavoro già usciti in italiano che mi sarebbe piaciuto tradurre: Feed my dear Dogs di Emma Richler, The people of Paper di Salvador Placencia, A Concise Chinese-English Dictionary for Lovers di Xiaolu Guo, The story of Forgetting di Stefan Merrill Block e una raccolta di racconti in chiave scientifico-matematica di Karl Iagemma, On the Nature of Human Romantic Interaction.
Ci saluti con dei versi a scelta di una delle tredici poesie di “Carne e colore”?
“Soltanto tu, /senza dita né occhi, /tu bocca universale.” Il colore a volte lo vedevo come una bocca da cui far uscire le sillabe, e la pagina bianca come una bocca di latte da cui far uscire il titanio del colore. Adesso a posteriori penso invece che il volto dell'inivisibile, il Tao, non abbia dita né occhi, perché non ha forma, ma è una bocca perché come un recipiente mai colmo e mai sazio nutre il mondo e la vita.
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