Nel maggio del 1995 Chance Renard viveva sulle pagine della testata mondadoriana dedicata alla spy-story la sua prima avventura. Raid a Kouru (recentemente ristampato per la libreria in TEA con il titolo Commando Ombra) aveva già in nuce tutti gli elementi – dal protagonista che visualizzai con la faccia di Tom Berenger - di un serial destinato a svilupparsi negli anni. Non era la prima volta che accadeva su Segretissimo, basta ricordare i personaggi di Remo Guerrini e Andrea Santini ma il traguardo dei dieci anni di pubblicazione arriva gradevolmente inaspettato anche per me. Il nemico siamo noi, il romanzo attualmente in edicola segna un punto importante della serie.
Il personaggio è un po’ invecchiato ma soprattutto la formula si è avvicinata alla realtà e autore e protagonista non esitano a prendere apertamente posizione rispetto alla guerra in Medio Oriente. Invece di ripercorrere la carriera del personaggio, ho pensato che il modo più originale e interessante di celebrarlo fosse rivelare ai lettori qualche trucco del mestiere, in particolare riguardo allo sviluppo di un serial, operazione che si discosta non poco dalla stesura di un romanzo a se stante.
Per un narratore, di genere soprattutto, scrivere un serial è un’ottima opportunità. Consente di mantenere nel tempo il rapporto con il pubblico fidelizzandolo non solo al proprio nome e ai propri personaggi ma anche a tutto il suo mondo immaginario. Questo è quell’insieme di ‘regole’ e convenzioni narrative che solo superficialmente chiamiamo cliché ma che variano da autore ad autore e, alla fine, ne rappresentano la cifra stilistica. Mi spiego, l’eroe, il super cattivo, la spalla, la bella, la maliarda, la lotta contro il tempo, sono tutti cliché della narrativa d’intrattenimento e, in quanto tali, possono essere amici o implacabili nemici del narratore a secondo dell’uso che questi ne fa. Nel romanzo di spionaggio poi cinema e narrativa scritta hanno impiegato queste figure sino all'inverosimile, da una parte obbligando l'autore a farvi ricorso proprio perché parti irrinunciabili del filone, e dall’altra costringendolo a compiere continui sforzi per rileggere ciò che già esisteva in maniera sempre nuova e originale.
Il ciclo di James Bond 007, soprattutto quello cinematografico ne è un esempio lampante.
Cosa sarebbe Bond senza tutti quegli elementi e personaggi di contorno che lo spettatore si aspetta di trovare in ogni film ma che esige di veder presentati in maniera sempre differente? Un mediocre scrittore resterà prigioniero dei cliché, lascerà che la storia scaturisca da essi nel modo più banale e ripetitivo, creando nel lettore un effetto noia che, a lungo andare, si ritorcerà contro di lui. È il caso di moltissimi serial nati da un’intuizione originale del loro ideatore e proseguiti da autori differenti da quelli originali che si limitano ad applicare la ricettina senza aggiungervi ( o sapervi aggiungere) nulla di personale con l’illusione che per replicare un successo basti riproporne pedissequamente gli elementi più riconoscibili.
Per sapersi servire efficacemente dei cliché è necessario conoscerli molto bene, ma soprattutto rendersi conto che ciascun autore ha i suoi o meglio, riesce a inventare una sua formula che utilizza gli archetipi del genere in maniera a volte solo leggermente differente ma sufficiente a renderli una strada originale da seguire con sicurezza ma senza ripetitività.
Quentin Tarantino è un profondo conoscitore della narrativa di genere e popolare, tanto da potersi permettere di ribaltare il cliché in qualcosa di assolutamente nuovo che stravolge le aspettative dello spettatore medio.
È questo genere di operazione che gli ha permesso di girare film “post moderni” che hanno suscitato il plauso di quella critica che generalmente detesta il genere e i suoi cliché, convinta di aver trovato una chiave di lettura nuova e originalissima. In realtà Tarantino ha fatto un’operazione molto più sottile e difficile da cogliere. Ha riplasmato degli archetipi classici mescolandoli tra loro, stabilendo le coordinate di un mondo immaginario tutto suo, pur restando all’interno di un filone (il noir d’azione).
Un bellissimo esempio è la saga di Kill Bill dove vengono riproposte tutte le sue passioni, dai film di Yakuza a quelli di Kung Fu, ai western all’italiana ai noir anni Quaranta.
Ma questo gli è stato possibile per singoli film perché il pubblico del serial, televisivo, fumettistico e letterario richiede un minor distacco dagli archetipi del genere. Non si tratta, però, di un’affermazione assoluta, alcuni dei serial di maggior successo degli ultimi anni si basano su una revisione drastica dei canoni di massa del filone, basti pensare ai Soprano’s Il concetto che mi preme sottolineare è che, con il serial narrativo, l’autore ci dice esattamente qual è il suo mondo immaginario, al di là della serie specifica.
Il Professionista è un serial di spionaggio che contiene sfumature sia di 007 che di SAS, ma è destinato a essere molto diverso da entrambi. C’è l’eroe, l’intrigo, le belle donne, disponibili e pericolose come ci si aspetta, ma la salsa con cui questi elementi sono mescolati risulta differente. L’azione è scandita con un ritmo particolare (in questo caso mutuata dal cinema di Hong Kong, da alcuni scontri a fuoco dei romanzi di Altieri e dai corpo a corpo di Marc Olden), il sesso può ricordare quello che si vede in certi episodi di SAS che a sua volta ha una forte ispirazione nel cinema hard-core degli anni ‘80/90, ma i rapporti tra il protagonista e le sue donne presenta una componente superiore di sentimento rispetto ai romanzi di De Villiers.
Gli intrighi hanno a volte una componente bondiana (mi riferisco al modo di inanellare le scene del primo Bond cinematografico), ma sono influenzati anche da una complessità che è più vicina a Ludlum e al Wan Hamme di XIII che ai vecchi Segretissimo. E poi il lettore è abituato all’idea che nelle storie di Chance può trovare schemi narrativi dove passato e presente si alternano e questo è uno schema molto caro a un grande scrittore di spionaggio che era Edward S. Aarons, l’autore di Sam Durell il Caimano.
Ma siamo nel ventunesimo secolo e la realtà giornalistica si mescola molto profondamente con quella geografica. Dopo l’11 settembre è cambiato qualcosa nella percezione dei romanzi di spionaggio, proprio come era avvenuto con la caduta del Muro di Berlino. Perciò pur mantenendo fissi alcuni punti la serie ha dovuto mutare, più che adattarsi, sfruttare a suo vantaggio gli spunti suggeriti dalla mutata situazione politico-economica mondiale.
Insomma è un mondo che ne riecheggia diversi ma, nel suo mélange, è unico.
E questo è il mio mondo di scrittore che in parte o forse in tutto e per tutto, si ritrova in ogni mio libro. Con il serial ho la possibilità di imporlo costantemente, di renderlo familiare di… educare il lettore al mio gusto nella narrazione, fornendogli la possibilità di accedere a opere anche più impegnative con gli strumenti adatti per poterle apprezzare appieno. Per esempio sono convinto che la narrativa di genere odierna non possa rinunciare al gioco delle citazioni e dei rimandi. Lo scrittore odierno non può prescindere da tutto quello che è stato fatto prima, non può avere la presunzione di aver inventato tutto lui, pena condannarsi a cadere in quello stereotipo da cui rifugge, che non conosce e quindi finisce per imporsi sulla sua scrittura quasi senza che se ne accorga.
Facciamo un esempio. Il primo a introdurre scene d’azione subacquea fu Leslie Charteris in un romanzo del Santo che venne prima di Thunderball che, a sua volta, sfruttò sullo schermo la potenzialità spettacolare di queste sequenze. Da quel momento la scena d’azione subacquea è diventata un classico della spy-story.
Sono certo che Clive Cussler, quando ha deciso di farne il fulcro delle avventure di Dirk Pitt non si sia semplicemente limitato a documentarsi sull’argomento dicendo: “No, non voglio sapere cosa hanno fatto gli altri”. Questo è un atteggiamento poco professionale perché qualcosa di ciò che ci precede rimane sempre nella memoria nostra e del lettore. Il trucco sta nel saper sfruttare questa reminiscenza, aggiungendovi qualcosa di personale ma sempre coscienti che i modelli ci condizionano. E allora perché non citarli esplicitamente? Lo ha fatto Martyn Mystere in alcune sequenze iniziali del primo albo a fumetti del Detective dell’impossibile, torna a farlo Cappi con alcune delle scene più riuscite di La lunga notte di Diabolik, lo ha fatto Altieri nell’incipit di Ultima Luce e, ovviamente anch’io me ne sono servito in Marea Rossa, forse uno dei Professionista più bondiani.
Alla fine, se ci guardate, sono tutte sequenze subacquee, hanno un filo comune nella nostra memoria eppure appaiono completamente differenti. Ecco, il serial mi permette di abituare il lettore a questo gioco delle citazioni, consentendomi sulle pagine di un romanzo più impegnativo come Quarto Reich di introdurre una scena sottomarina dove ho rivisitato il genere.
C’è un altro risvolto utile nello scrivere un serial destinato alle collane economiche. Più volte ho paragonato questo lavoro alla realizzazione di un telefilm. Non è esattamente così. Nei telefilm devo concludere una storia in 50 minuti, restando entro un budget che, forzatamente, è piuttosto ristretto. Quando scrivo un Segretissimo so di non dover superare le 250 cartelle e questo corrisponde al limite temporale anche se in questo spazio so di poter sviluppare una vicenda piuttosto articolata rispetto a un semplice film televisivo. La differenza è che all’interno di quel contenitore posso far esplodere la bomba atomica in Iraq, crollare un grattacielo a Manhattan ed esplodere un ponte in Cina, insomma non mi devo preoccupare di quanto costerà un continuo cambio di location perché è tutto sulla carta. Devo però tenere sempre presente che la mia storia necessita di un ritmo veloce e una scrittura scorrevole.
La bella pagina, l’approfondimento, devo riservarla al romanzo da libreria dove ho uno spazio maggiore (circa 500 pagine) e posso inoltrarmi in territori inesplorati, con qualche divagazione.
Nel romanzo di serial il protagonista deve sempre essere al centro dell’azione; ai comprimari, amici o nemici che siano, vanno riservati solo dei rapidi flash.
In poche battute devo descrivere una città, suggerire l’atmosfera di un ambiente, in pratica è come se il mio budget mi costringesse a essere più stringato e incisivo possibile, una qualità che mi verrà utile anche quando scriverò il romanzo più impegnativo. Il serial mi permette di “far pratica” sfoltire, sviluppare un linguaggio che non deve essere sciatto ma incisivo, a sfruttare le mie ricerche senza infliggere al lettore pagine e pagine di descrizioni e spiegazioni didascaliche.
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