Lo Spettatore si reca fiducioso e speranzoso a vedere “Il nastro bianco”, il nuovo film di Michael Haneke. Ricorda le sensazioni provate vedendo altri due film del regista bavarese; ricorda il freddo gelido provato vedendo l’insensata violenza cieca di “Funny Games” (prima versione) e il calore bruciante dell’abisso infernale in cui “La pianista” l’ha trascinato passo dopo passo. Dove lo porterà questo “Il nastro bianco”? Le recensioni dapprima promettono una denuncia di quella violenza “normale” che giace sotto la pelle di tutti e che si svolge nel silenzio delle case più insospettabili; poi parlano di un thriller che vede protagonisti i ragazzi del coro di un paesino; poi invece si parla delle origini del nazismo, ma lo Spettatore è diffidente di quest’ultima possibilità: la violenza non è certo prerogativa del nazismo, e solo perché un film si svolge in Germania non vuol dire che si debba andare a parare lì.
Inizia il film e lo Spettatore svuota la mente da recensioni e trame: è pronto a ricevere una forte dose di dolore e cattiveria e a spiare nella sicurezza della sala buia la violenza subita per finta sullo schermo, simbolo della violenza vera nel mondo. (Chissà, magari è proprio questo voyeurismo che Haneke vuole denunciare!)
È un racconto agreste, nota lo Spettatore, con voce narrante che premette e promette eventi di importanza enorme, che però sfuggono all’attenzione dello Spettatore, il quale nota solamente la descrizione classica di una storia corale: vengono mostrati molti personaggi, descritti con poche ed avare pennellate, e si assiste a situazioni che all’apparenza non hanno alcuna importanza ma che sicuramente (ha fede lo Spettatore) si ritroveranno più avanti nella storia. Dopo la prima mezz’ora lo Spettatore ha un po’ di confusione con i personaggi, ma lo stesso si gusta l’affresco in un delizioso bianco e nero di un paesino la cui sopravvivenza ruota intorno al lavoro offerto dal barone locale, con relativa sudditanza psicologica. Però quello che apprezza di cuore è la figura del pastore e la sua rigidissima concezione dell’educazione, che impartisce ai figli a suon di punizioni fisiche e psicologiche. Non che sia apprezzata la violenza in sé, intendiamoci, ma il richiamo al pastore di “Fanny e Alexander” (1982) in cui Ingmar Bergman concentrò i ricordi del proprio patrigno e della sua rigida educazione. Probabilmente non è una citazione diretta o voluta: quel tipo di educazione è stata molto comune e probabilmente in molti posti lo è ancora, dice fra sé e sé lo Spettatore.
Superata la metà del film, però, cominciano a nascere dubbi. Fino a quel punto, infatti, la banalissima storia campagnola, che sembra tratta da un romanzo d’appendice ottocentesco (ma dov’è la violenza di cui parlavano le recensioni?), ha visto solo un picco d’attenzione, quando cioè avviene il forte dialogo fra la levatrice e il dottore del paese. Le parole forti in realtà sono solo una scusa per nascondere la totale mancanza di potenza della scena, ma più di tutto lo Spettatore è attonito: non può essere un caso la somiglianza con il dialogo fra Marta e Tomas in “Luci d’inverno” (1962) di Bergman! Non è che Haneke ha voluto fare un film “alla Bergman” e magari il bianco e nero fa parte del piano? Non ci sarebbe nulla di male in questo, anzi: più si cita e si ricorda il Maestro svedese e meglio è. Però certo lo Spettatore si sta chiedendo se sia partito con il piede sbagliato nel porsi di fronte al film...
Arrivati a tre quarti della pellicola la calma piatta è leggermente increspata dal sospetto di violenza domestica: di solito a questo punto del film c’è un colpo di scena, mentre questo tipo di violenza ce lo si aspettava sin dall’inizio! La scena (solo suggerita, non mostrata) è così priva di forza, di appeal, che lascia lo Spettatore esterrefatto, ed in più si chiede affranto: quanto dovrà essere bella l’ultima mezz’ora del film per salvare la nullità vista finora?
A venti minuti dalla fine iniziano le indagini sugli incidenti accaduti ad alcuni bambini del villaggio, in modo ovviamente frettoloso e lo Spettatore si chiede: come mai un elemento finora secondario è divenuto d’un tratto importante? Si fanno ipotesi, si lanciano accuse, tutti i fili lasciati in libertà durante la storia vengono tirati in maniera scomposta, e a cinque minuti dalla fine lo Spettatore si chiede se non ci sia dietro l’angolo uno di quei colpi di scena capaci di rovesciare tutto, di dare a tutta la storia un significato diverso... Il tempo di fare queste ipotesi ed una pietosa dissolvenza chiude una storia che non ha inizio né fine: un sipario misericordioso si cala su un film nato morto, interpretato da attori incosistenti che ricoprono ruoli incredibilmente piatti.
Il film è finito e lo Spettatore si chiede se sia in realtà mai iniziato. Sullo schermo non è accaduto assolutamente nulla e i personaggi sembrano non essere mai neanche apparsi. Il ragazzino che campeggia addirittura in copertina? Nei pochissimi minuti in cui appare non fa altro che ricordare l’alter ego di Bergman in “Fanny e Alexander”.
Dov’è la violenza di cui si parlava? Genitori che puniscono fisicamente i figli e alcuni bulli che maltrattano ragazzini sarebbe violenza? Che mondo meraviglioso se la violenza fosse solo quella! Dov’è il nazismo? Va bene, alcuni critici entusiasti amano vedere il nazismo ovunque, ma qui proprio non c’erano le basi neanche con la più fervida immaginazione. Dov’è il thriller? Un paio di bambini malmenati da uno sconosciuto, forse per punire i peccati dei padri, sarebbe il thriller? In una parola: dov’è il regista? Nei precedenti film di Haneke visti dallo Spettatore, il regista c’era e si faceva vedere (e sentire). Qui più che un regista c’è un tizio che gridava “azione” prima che la macchina da presa iniziasse a lavorare, e nelle vesti di sceneggiatore in realtà ha semplicemente battuto con le dita su una tastiera, stampato il risultato e fatto recitare a degli attori.
Lo Spettatore è deluso, non solo dal film ma anche dal Festival di Cannes che quest’anno ha assegnato la Palma d’oro a “Il nastro biaco”! Evidentemente i film concorrenti dovevano proprio esser messi male, pensa malignamente lo Spettatore prima di rivedersi il di gran lunga migliore “La pianista”.
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