“L’inquieto vivere segreto” (Transeuropa, 2009), due aggettivi che rimandano a due condizioni, l’inquietudine e la segretezza. Ti chiediamo di spiegarci in che senso il vivere è segreto, nell’esistenza fittizia dei protagonisti narrativi e in quella reale da cui la narrazione prende avvio.

Spesso siamo un mistero anche per noi stessi. Il segreto è anche all’avvio della nostra esistenza. E’ qualcosa, il segreto della vita, che è custodito altrove. Le religioni mettono questo segreto nei misteri della fede, l’ateismo, in tutte le sue declinazioni più o meno disperate, tenta di negare addirittura il segreto. E poi, la vita si dipana spessissimo in relazioni segrete, in parole che restano segrete, in intenzioni segrete. La vita, le relazioni tra le persone, sono sostanziate su vari livelli, stratificate, per cui la stessa cosa, lo stesso atto, puo’ essere letto su più piani, a seconda di quanto il “vivere segreto” sia tale, a seconda di quanto abbiamo svelato o è stato svelato, sconfessato. Nell’esistenza dei personaggi il vivere è segreto in quanto l’io narrante, uno scrittore, è egli stesso un fabbricante e consumatore di “vivere segreto”, attraverso le fasi del suo lavoro e della sua esistenza. Il tutto all’insegna di un’inquietudine di fondo, che ci accompagna come una costante colonna sonora.

Al centro del tuo nuovo romanzo troviamo ancora i rapporti familiari. L’essere viene intrappolato, tormentato, dilaniato da questi rapporti. Nei tuoi romanzi si può parlare di una lacerazione dell’essere direttamente proporzionale al suo coinvolgimento nella suddetta rete di rapporti?

Sì, non in tutti ma nei più importanti (Le cose come stanno ed Era mio padre) sì. La famiglia è spesso una trappola, un bozzolo avvelenato, anche quando tutto va bene. C’è sempre in arrivo una sorpresa, è il rovescio crudo e nudo del “Mulino Bianco”. La famiglia, nei suoi componenti, rappresenta anche l’alterità nella somiglianza, qualcuno che fa parte di noi ma al contempo non è noi; è quando vediamo veramente in faccia “l’altro” familiare che ci rendiamo conto di quanto possiamo essere nudi e indifesi.

L’inquietudine umana è scindibile da una minima consapevolezza o dalla capacità del pensiero?

Sì, certo. Ma non se ne esce.

Si può volere la tranquillità, ma dura poco. L’inquietudine per me non è affatto qualcosa di negativo, è il nostro humus, è la radice dalla quale prendiamo energia vitale; che è sempre una forza reattiva, come la comicità è sempre una reazione – estremamente vitale – alla disperazione.

Quando scrivi, qual è la tua priorità? L’espressione del magma, la resa artistica, lo stile...

La mia priorità è andare sempre più oltre. Non dico migliorarmi; faccio libri sempre diversi, anche se con alcune caratteristiche che li accomunano tutti, come un io narrante pervasivo e a volte angosciante. Il magma, nella sua espressione, mi viene naturale, forse perché è naturale ciò che magmatico e viceversa. Lo stile, anche quello, va nel magma, ne è l’espressione più formata, è la briglia che lo tiene dentro un recinto di senso e di forma. E poi c’è la resa artistica, cercare di armonizzare la vicenda narrata con lo stile.

Mi sembra che già nelle tue opere precedenti si ergesse una voce monologante, che dall’ironico sconfinava nel sarcasmo, una voce amara e amareggiata, piena di humour nero.

Esattamente. É una voce coscienziosa e disperata, diversa per ogni personaggio, ma sempre inquieta. Ecco, in diverse gradazioni c’è l’inquietudine, la paura, l’ansia di abbandono, l’ansia di riscatto, la pena. L’humour nero credo stia nelle cose, la vita è fatta di goffaggine, spesso, e a volte basta poco per rendere una situazione umoristica. Il nero è un colore che uso spesso: graffia, dà sapore e consistenza, dà anche credibilità, pur stando nell’alveo del paradosso, spesso.

Ti chiedo come procedi nella struttura dell’opera. Ne “L’inquieto vivere segreto” (ma anche in “Era mio padre”) manca una trama nel senso tradizionale, il libro è diviso in brevi capitoletti ciascuno dei quali ha un titolo spesso paradossale.

Esatto, brevi capitoli. Qui ci sono anche dei titoli, mentre in “Era mio padre” no.

Sono flussi di coscienza, con andamento circolare. Si torna spesso indietro col tempo, o avanti. É in entrambi i casi un modo di lavorare sulla memoria interiore: la differenza sostanziale è che in Era mio padre parlo di fatti realmente accaduti, mente in questo ultimo è tutto inventato, e anzi lavoro su una dimensione surreale; ho voluto compiere uno scarto dall’iperrealismo memoriale di Era mio padre, dove un figlio parla di un padre amato, al surrealismo di “L’inquieto vivere segreto” dove un padre parla spesso di un figlio odiato. Un’operazione speculare, che chiude un filone (iniziato con “Le cose come stanno”, del 2003) sulla Germania, la terra dei padri, le origini. Da qui in poi mi occuperò di tutt’altro.

Il protagonista de “L’inquieto vivere segreto” si ritrova alle prese con un mistero: la sparizione dell’amata moglie. Una tecnica in omaggio alla suspense o un significato filosofico?

Entrambe le cose. Suspense perché la vita “inquieta” è fatta di suspense e significato filosofico perché questo è sostanzialmente un romanzo sulla scomparsa. Dell’amore, del passato, della giovinezza, degli altri. E dunque è un romanzo sulla solitudine.

Di nuovo il richiamo della Germania (oltre a quest’ultimo romanzo, penso anche ad “Era mio padre”). Cosa rappresenta questa terra, per te?

Rappresenta le mie radici più profonde. Pur essendo italiano, mi sento legato alla Germania da un rapporto strano, di amore-odio.

L’amore-odio peraltro è un ingrediente essenziale in ogni mio libro, è il pepe amaro della vita.

Com’è il clima culturale in Italia? Ci fai un paragone rispetto a quello tedesco?

In Italia è quello che è: editori spesso inutili, una critica che non riesce a seguire tutte le novità, o che si proclama tale solo perché scrive sui grandi magazines. In Germania le cose vanno un po’ meglio, c’è più attenzione, anche perché ci sono più lettori. Niente di che, insomma, ma il numero dei lettori incide.

Per chi volesse seguirti anche sul web, ci racconti qualcosa della tua attività su blog e social network?

Beh, sono sul web dal 2003. Da fine 2004 al 2008 ho fatto parte della redazione di Nazione Indiana, un’esperienza per me molto importante e stimolante. Ho cofondato nel 2007 assieme al “patron” Fabrizio Centofanti La poesia e lo spirito. Sono su Facebook dall’anno scorso e mi ci trovo bene. Ho un mio blog The FK experience  www.markelo.net che è il mio laboratorio di scrittura.

Sei d’accordo con l’assunto ripreso anche da Lowenthal, “Il passato è un paese straniero”?

Purtroppo no. Penso che sia esattamente il contrario. Il passato è la nostra terra, anche se siamo a diecimila chilometri di distanza non possiamo dimenticarlo.