Giacomo Cacciatore scrive così di Giovanni Sucato, protagonista della vicenda raccontata assieme a Raffaella Catalano e Gery Palazzotto nel film documentario Il mago dei soldi: “Volendo modernizzare il termine ‘archetipo’, pensando a Sucato si potrebbe parlare di paradigma. Eterno perché dura e perché, nella sua esemplarità che garantisce la ripetizione, eserciterebbe anche oggi i suoi effetti su qualsiasi popolo, a qualsiasi latitudine e in ogni momento storico; forse con modalità diverse nella forma, ma identico nella sostanza”.
A dire il vero, l’uomo-personaggio Sucato di archetipi ne incarna più di uno, facendo della propria persona un piccolo mito della Sicilia della prima metà degli anni ’90 (un’epoca che condensa in poco più di un lustro le radici storiche dell’attualità che inaliamo ogni giorno): Mida e Messia, Don Chisciotte ed eroe da rotocalco. Un Prometeo di borgata che scopre il segreto che sta dietro il fuoco che riscalda la caverna domestica e platonica dell’uomo moderno: i soldi. Un pifferaio magico che suona le note dell’isteria popolare.
E dove c’è mito – piccolo, grande, eterno o fatuo che sia – c’è antropologia. E dove c’è antropologia, pellicole documentario e sud Italia viene in mente Vittorio De Seta, regista nato a Palermo, attivo dagli anni ’60 in poi; anche se, in fin dei conti, De Seta col trio di autori de Il mago dei soldi ha in comune solo Palermo e un certo gusto etnografico del racconto; tra di loro c’è il mare che divide l’analogico e il digitale. I pescatori, i pastori e gli emigranti fantasma dipinti dal divin Vittorio sono lontani anni luce dalla gente che ruota attorno a Giovanni Sucato, un ragazzo che fu la sintesi dei self made man che imperversavano negli anni ’80, con in più il sapore di caponata, malaffare, cordite e sangue versato. Cavalcando le suggestioni, l’anello di congiunzione storica potrebbe essere Pier Paolo Pasolini, il prisma letterario che getta luce sul mistero che sono i nostri anni ’70, pur senza averli vissuti, purtroppo, fino in fondo: il teorema che trasforma in maniera definitiva il contadino italiano in yuppie.
Il taglio della narrazione è molto giornalistico, nella sua essenzialità artigiana, quasi televisivo, anche se spesso sincopato da passaggi più cinematografici in cui fanno capolino ottime scenografie naturali e urbane e citazioni che vengono da certo cinema Seventies nostrano.
La forza del lavoro, comunque, sta tutta nel punto di vista: “Sono i piccoli fatti di cronaca che”, secondo gli autori, “completano il quadro d’insieme di un grande fenomeno criminale come quello di Cosa nostra. Questa non è una storia di leggendarie latitanze e di superboss dalle strategie imperscrutabili. È, per così dire, una storia dal basso. Non volevamo puntare i riflettori su protagonisti noti perché la storia, spesso, la scrivono anche i comprimari. E perché le situazioni minori sono paradigma di scenari più vasti: ne ripetono i meccanismi, ma offrono uno spunto di interesse in più, perché consentono di far emergere dal passato fenomeni e personaggi dimenticati, che comunque hanno segnato epoche, costumi, economie, vite”.
Il mago dei soldi è – al di là dei piccoli difetti di produzione, oltre ogni relazione tra l’antropologia e le docufiction moderna – una storia che vale la pena sentirsi raccontare. La storia di un uomo e della sua terra, rivista nei frammenti di uno specchio rotto.
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