Lui – uno con cui sono in disaccordo da una vita e che mi devasta l’anima raccontando le sue storie per conciliarci il sonno sul cuscino – l’altra sera che ero andato... beh, non ha importanza, tornati entrambi a casa, lui che fa? S’inventa di parlarmi di un killer che ha appena conosciuto! “È un professionista che agisce anche a distanza, sai”. “Ma senti un po’ che novità!” pensai, e lui aggiunse: “Attento, perché questo sa uccidere scoprendo ad arte anche qualcos’altro, oltre alle gambe per mettersi lo smalto”. Cosa?
Era quasi l’alba – iniziò a dire – e un uomo in là con gli anni con un libro di mio padre tra le mani si era assopito in una Charles Eames nera di cuoio; quand’ecco che il killer, rientrato da una nottata di follie passata assieme ad un collega, si accostò alla poltrona e fece: “Bello mio, sei finitoo!” Prima sottovoce, soffiando a intervalli regolari le parole con le labbra vicino all’orecchio di chi stava leggendo con il cerume agli occhi, e prolungando l’ultima vocale sullo stato delle cose per indirizzargli il dormiveglia mattutino verso gli incubi di un sogno, poi aumentando ritmo e tono fino a gridarle a squarciagola con un urlo da far accapponare le ossa a un morto.
A questo punto, lui mi raccontò che il killer accentuò l’azione mettendo forza solo all’iniziale complimento estetico nella speranza di far venire un colpo al poveruomo – senza la necessità, insomma, di fargli capire che lui lo vedeva già fotografato e riprodotto in ceramica sopra un tombale – e che poi proseguì esercitando una perfidia degna di rilievo: curve deliziose alleggerite ad arte, mini seta del mattino e un letto a una piazza per sognare l’indomani.
E qui, il mio compare – suo padre è anche il mio – smise il racconto lasciandomi in compagnia del poveruomo.
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