Abbiamo già parlato delle “Finzioni” di Jorge Luis Borges, e di come il poeta e scrittore argentino abbia molto amato giocare con la letteratura e con i lettori. Nel 1953 questi coinvolge nel gioco anche un suo collega e carissimo amico: Adolfo Bioy Casares. La collaborazione, la stima e l’amicizia fra i due sono fertili e durature. «Borges vive di letteratura» avrà a dire Casares, e Borges non mancherà occasione di lodare l’amico sia come persona che come autore. Insieme scriveranno racconti e raccoglieranno i racconti di altri in antologie... Ma non sempre la distinzione fra le due cose sarà netta.
Nel 1953, come si diceva, i due curano un’antologia molto speciale: “Racconti brevi e straordinari”. In essa vengono raccolti dei mini-racconti (alcuni addirittura di poche righe!) degli autori più disparati, i quali sono stati (e saranno in seguito) ispirazione per i lavori di Borges. Oltre ad essere un vero gioiello letterario, quest’antologia tende più di una trappola al lettore: gran parte degli autori e dei titoli citati, infatti, altro non sono che pseudobiblia inventati dai due “curatori”!
Un campanello d’allarme è “Un mito di Alessandro”. Questo brano tratto da “La modification du Passé ou la seule base de la Tradition” (1949) di un fantomatico Adrienne Bordenave lascia il lettore stupito, perché le stesse parole verranno pronunciate da Borges in un’intervista del 1985: quando gli chiesero cosa pensasse del fatto che in quei giorni era morente Robert Graves, Borges volle omaggiare l’autore parlando del suo poema su Alessandro Magno. Dopo il suo discorso, però, Borges non disse di averlo tratto da Adrienne Bordenave (mentre altrove cita sempre le sue fonti), e questo fa pensare che sia Bordenave che la sua opera in realtà non siano mai esistiti.
Una breve ricerca, e si scopre che Bordenave ha buona compagnia: è uno dei tanti pseudo-autori dei tanti pseudobiblia citati di nascosto nell’antologia!
È veramente arduo stabilire quali e quanti dei molti autori presenti nell’opera siano reali o meno, e quand’anche siano reali se veramente abbiano scritto le parole a loro attribuite. Borges e Casares non sono dei filologi, sono dei letterati amanti della letteratura, e se per “contagiare” il lettore con questo amore devono attribuirlo ad autori (altri o inesistenti), poco importa...
Una menzione molto particolare merita “Del rigore della scienza”, brano tratto da “Viaggi di uomini prudenti” (1658) di Suárez Miranda. Che sia uno pseudobiblion lo rivela il logico matematico italiano Piergiorgio Odifreddi nel suo “C’era una volta il paradosso” (2001). Il brano scritto da Borges si rifà alle idee sul regresso infinito di Josiah Royce (1855-1916) espresse ne “Il mondo e l’individuo” (1901). Confrontiamo i due autori con un breve estratto.
Borges (nelle vesti di Suárez Miranda) scrive: «In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale Perfezione che la mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso.».
Josiah Royce scrive: «Immaginiamo che una porzione del suolo d’Inghilterra sia stata livellata perfettamente, e che in essa un cartografo tracci una mappa d’Inghilterra. L’opera è perfetta; non c’è particolare del suolo d’Inghilterra, per minimo che sia, che non sia registrato nella mappa; tutto ha lì la sua corrispondenza. La mappa, in tal caso, deve contenere una mappa della mappa, che deve contenere una mappa della mappa della mappa, e così all’infinito.»
Il regresso infinito è molto caro a Borges, che ne trarrà ispirazione per più di un geniale racconto durante la sua carriera letteraria.
Questo “Del rigore della scienza” era molto amato dall’autore (dal “vero” autore!). Già era apparso nel 1946 in “Los Anales de Buenos Aires”, ed in seguito venne inserito nella sezione “Museo” dell’antologia “L’artefice” (1960), opera che vanta anch’essa degli pseudobiblia.
Sempre nella sezione “Museo”, infatti, troviamo “Le regret d’Héraclite”, due versi di Gaspar Camerarius tratti dalla sua opera “Deliciae Poetarum Borussiae”. Non tragga in inganno la precisione della citazione, perché nel 1985, nel corso di un’intervista, Borges stesso fece questa rivelazione: «La poesia è attribuita a un immaginario poeta prussiano, Gaspar Camerarius, per il quale ho inventato un’antologia dal titolo: “Deliciae Poetarum Borussiae” (Delizia dei poeti prussiani)» Tutto falso, dunque: il vero autore dei due versi era niente meno che Jorge Borges, il padre dello scrittore!
Un altro fra i più affascinanti pseudobiblia creati da Jorge Luis Borges è il Libro di Sabbia del racconto omonimo del 1975 (raccolto nell’antologia che ne porta il titolo). Malgrado il poeta e saggista argentino avesse più volte dato l’addio all’attività letteraria, gli era impossibile stare lontano dal suo elemento naturale: “Il Libro di Sabbia” è fra le migliori opere del periodo maturo dell’autore!
Un oscuro venditore bussa alla porta del protagonista e gli propone l’acquisto di un libro tanto misterioso quanto affascinante: «Mi disse che il suo libro si chiamava il Libro di Sabbia, perché quel libro e la sabbia non hanno né principio né fine. Mi disse di cercare la prima pagina. Con la mano sinistra sopra il frontespizio, cercai la prima pagina con il pollice quasi incollato all’indice. Tutto fu inutile: tra il frontespizio e la mano si interponevano sempre nuovi fogli. Era come se sorgessero dal libro». Un libro che sfida le più ovvie leggi fisiche e naturali, dunque, che scorre all’infinito sia in avanti che indietro. La spiegazione è semplice quanto sibillina: «Se lo spazio è infinito, noi siamo in qualsiasi punto dello spazio. Se il tempo è infinito, siamo in qualsiasi punto del tempo». Così il Libro è infinito sia nel tempo che nello spazio, e a qualsiasi punto lo si apra, ci si ritrova in un qualsiasi punto del tempo e dello spazio...
Ovviamente il protagonista è spaventato da un simile libro: vorrebbe distruggerlo, ma ha paura che le conseguenze possano essere funeste. La soluzione migliore, quindi, è nasconderlo in una grande biblioteca, renderlo anonimo in mezzo a tanti altri libri simili, sperando che nessuno lo possa più trovare.
Finiamo con un’altra antologia curata da Borges in cui egli gioca con il lettore. Ne “Il libro di sogni” (1976), troviamo un brano intitolato “Der Traum ein Leben”, scritto da un certo Francisco Acevedo e tratto dalla di lui opera “Memorias de un bibliotecario” con tanto di data: 1955. È tutto plausibile e non abbiamo motivo di dubitare delle informazioni che Borges ci dà... peccato invece che sia tutto inventato di sana pianta! Lo rivela María Esther Vázquez, allieva ed amica di lunga data, nel suo libro intervista “Colloqui con Borges” (1982): il testo riportato nel “Libro dei sogni” è scritto dal maestro argentino di suo pugno e racconta un sogno che aveva fatto e che vedeva il proprio nipotino protagonista.
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