Arriva in Italia, con due anni di colpevole ritardo, “Le cronache dei morti viventi” (Diary of the Dead, 2007), un film «venuto dal cuore», come l’ha definito il regista e sceneggiatore George A. Romero, vera autorità in campo zombie.
Era il 1968 quando il regista newyorkese scosse dalle fondamenta il genere horror girando un film che sarebbe rimasto negli annali del cinema, inventando non solo un genere (lo “zombie movie”) ma dando forma definitiva ad una creatura fino ad allora molto nebulosa. Gli zombie, infatti, non li ha certo inventati Romero, ma di sicuro dal ’68 in poi ogni autore di film e romanzi (e di videoclip, se si pensa al “Thriller” di Michael Jackson e al recente “Vieni a ballare in Puglia” di Caparezza) ha attinto all’iconografia romeriana dello zombie, accantonando l’eterea figura posseduta che si trova in grandi classici come “L’isola degli zombies” (1932) con Bela Lugosi e “Ho camminato con uno zombie” (1943) di Jacques Tourneur.
Fra il 1968 ed il 1985 George A. Romero gira quella che in seguito è stata convenzionalmente chiamata Trilogia Zombie. Parte dalla notte (Night of the Living Dead), passa per l’alba (Dawn of the Dead) ed arriva al giorno (Day of the Dead). Le storie non sono collegate strettamente, così come i personaggi sono sempre diversi, ma tutte si muovono in uno stesso scenario: i morti tornano in vita e determinano gradualmente il crollo della civiltà umana (cioè umana “viva”!) Il terzo film si chiude con un paradossale quanto apocalittico capovolgimento di ruoli: i morti abitano la superficie, quello cioè che era il posto dei vivi, mentre i pochi sopravvissuti sono costretti a rifugiarsi sotto terra, ubicazione per eccellenza dei morti!
Nel 2005 Romero dà vita ad una seconda ideale trilogia, girando “La terra dei morti viventi” (Land of the Dead). Questo film si riallaccia ad uno spunto lasciato in sospeso alla fine del terzo film: non tutti gli zombie sono semplici corpi tornati in vita, alcuni hanno mantenuto una pur minima facoltà intellettiva. (Lo spunto verrà ampliato da David Wellington nel suo romanzo “Zombie Island”, Mondadori 2007). Nel quarto film dedicato agli zombie Romero mostra bande umane che scorazzano sulla superficie e gruppi di zombie che invece cercano di organizzarsi: non si sa quale dei due gruppi sia il più “umano” (probabilmente nessuno dei due lo è più!) ma il film si chiude lasciando intravvedere una sostanziale convivenza fra i due, una specie di “pace armata”.
Nel 2007, un anno prima del quarantennale dei suoi zombie movie, il regista dà vita a questo “Le cronache dei morti viventi”, che però si discosta del tutto dalla precedente produzione.
È un film più “moderno” rispetto agli altri. La Trilogia era “moderna” quando uscì, mentre il quarto film sembra strizzare troppo l’occhio a mode e tendenze ormai superate dalla cinematografia. Questo quinto film è del tutto attuale. Protagonisti sono infatti dei giovani (presenza ormai fissa di qualsiasi film thriller-horror) e l’alta (e spesso improbabile) tecnologia la fa da padrona, mentre negli altri film non si vede quasi mai niente di più tecnologico di un televisore!
La scelta di un’ossessiva presenza di tecnologia nell’inquadratura serve al regista per mostrare com’è diventato il mondo in questi anni: è un mondo dove la realtà esiste solo ed esclusivamente se passa attraverso un video, video ergo sum, dove l’upload è il parto moderno che dà vita alla digitalizzazione del proprio pensiero. È la YouTube Generation: pubblicare un video è l’unico modo per testimoniare la propria esistenza, e il contatore che mostra le visite è l’unica prova che altri esistano!
Il film riprende uno stile divenuto sempre più di moda negli ultimi anni: non c’è più l’occhio esterno del regista che mostra allo spettatore il susseguirsi delle vicende, ma è ciò che vedono (e riprendono) i protagonisti a creare il film stesso. Per citare un paio di film rappresentativi, si può tirare in ballo “Cloverfield” (2008) o lo spagnolo “REC” (2007), con relativo remake statunitense “Quarantena” (Quarantine, 2008). “Le cronache dei morti viventi” adotta questa tecnica, addirittura presentando un titolo diverso all’inizio del film: “The Death of the Death”, il titolo cioè di un documentario girato da Jason, uno dei protagonisti, e montato dalla voce narrante che mostra e commenta tutti gli avvenimenti ripresi da varie telecamere.
Il video è la vita, per i protagonisti: quando uno di loro avrà accesso ad internet, non penserà ad avvertire la famiglia, bensì a caricare il proprio video in Rete. Riceverà 72.000 visite in 8 minuti: un record! È la natura umana: se in autostrada troviamo un incidente, viene fatto notare nel film, non ci fermiamo per vedere se serve aiuto, ma ci fermiamo per guardare! Siti come YouTube permettono a gente di tutto il mondo di guardare incidenti su larga scala, per soddisfare questa malsana attitudine umana.
«Sei tu che mi hai messo una telecamera in mano» dice però Jason al proprio professore universitario. Sono due generazioni a confronto: quella che ha visto la guerra dal vivo e quella che l’ha vista in video; quella che ha contribuito a creare il mondo di oggi e quella che il mondo di oggi lo guarda attraverso un video; ma anche quella che ha visto nascere gli zombie movie e quella che invece li continua a girare! Nella figura del professore sono raggruppati tutti gli adulti protagonisti dei precedenti film di Romero che si confrontano con gli adolescenziali personaggi fissi dei moderni film horror. Due modi di considerare il mondo, ma lo stesso mondo; due modi di considerare l’orrore, ma sempre lo stesso orrore.
E gli zombie? Diciamolo francamente: i morti viventi sono le grandi vittime di questo film!
L’attenzione è rivolta, giustamente, ai protagonisti “vivi” e alla loro smania ossessiva di riprendere tutto, e malgrado gli zombie siano tecnicamente l’obiettivo primario di queste riprese in realtà sono delle semplici comparse. Tutto il film sembra pensato come compendio sugli zombie movie, come se Romero avesse voluto riassumere e mostrare tutte le prerogative (positive e negative) del genere. Non mancano grottesche cadute di stile (come il ragazzo che si perde in un improbabile magazzino buio) che però sono sempre state elemento fondamentale del filone.
Gli zombie sono romeriani classici: lenti, rantolanti e scoordinati. Non c’è traccia dei mostri superveloci che altra cinematografia horror ha proposto nell’ultimo decennio.
In conclusione, un film da vedere come denuncia della mania del video che sta attraversando il mondo (così come Day of the Dead, il secondo film, è da gustare in tutta la sua tagliente denuncia del consumismo americano), e non troppo come zombie movie: probabilmente nel pensiero del regista i veri mostri siamo noi che stiamo guardando la pellicola... Siamo noi i “morti vedenti”!
Ricordiamo che questa seconda trilogia dovrebbe chiudersi con “Survival of the Dead”, presentato lo scorso settembre in anteprima al Festival di Venezia. Il condizionale è d’obbligo: sarà veramente la fine? Come si è visto, Romero non crede che la fine sia... la fine!
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