Molti anni fa, all’inizio della mia carriera di free-lance, coniai la definizione di ‘action writer’ che spavaldamente esibivo sui biglietti da visita assieme al simbolo di un drago preso dal logo di ‘Criyng Freeman’. Per dirla tutta non avevo ben presente che tipo di narratore sarei diventato. Scrivevo storie di spionaggio, nere, d’avventura e- ai tempi- molta cronaca sportiva legata agli sport del ring. Un collega si definiva ‘sport writer’, perciò decisi che, essendo l’azione una parte integrante del mio modo di raccontare, quell’ ‘action writer’ mi si addiceva. Nel corso degli anni mi è rimasto attaccato e ne sono fiero anche se a volte la definizione se presa letteralmente mi va stretta. Dopotutto le etichette (le iscrizioni a dirla tutta) sono per le pietre tombali, lo diceva il dottor Kananga... A volte la sento cita con una certa condiscendenza, soprattutto da quei colleghi che sono convinti di scrivere il ‘noir’ come categoria privilegiata della narrativa d’intrattenimento o che addirittura sono persuasi di essere dei ‘ post noir’ perché, passata la moda, non va loro bene neanche quella etichetta e vogliono essere autori a tutto tondo, quindi per prima cosa vogliono prendere le distanze dal sottoscritto e dal famigerato ‘ genere’. Ognuno ha diritto a definirsi come gli pare e magari credersi poeta, Scrittore con la maiuscola o che altro. Un po’, dentro di noi, lo sappiamo veramente cosa siamo. Io sono un artigiano animato da una grande passione, una specie di cantastorie da strada che raccoglie e riprende storie semplici e le fa diventare complesse aggiungendovi del suo. Uno che scrive per chi ha voglia di provare un’emozione. Che questa emozione spesso comprenda una sana dose di sesso e violenza fa parte del gioco. Ci tengo a dire che l’azione cui faccio riferimento non semplicemente si limita a sparatorie, scazzottate e scopate... giusto per intenderci. L’azione è il ritmo della narrativa. La storia che raccontiamo deve procedere. Detesto le vicende che si arrotolano su se stesse con inutili quanto noiose digressioni che vorrebbero essere approfondimenti psicologici ma spesso sono un parlarsi addosso o paturnie varie. Il personaggio esce da quello che fa o dice. ‘Show don’t tell’, se un individuo ha paura o è tormentato si può comunicarlo al lettore attraverso una battuta o un gesto. Perché starci a girare in tondo come squali che non si decidono ad azzannare la preda? A questo proposito mi piace citare una frase che Garth Ennis mette in bocca al Punitore. Il contesto è la caccia a un serial killer nei sotterranei di New York. Il Punisher si trova coinvolto con una piscologia che, come è prevedibile, impiega moltissimo tempo ad analizzare(e alla fine a trovare scusanti e giustificazioni) nei motivi e nelle cause della follia omicida del killer. Il Punisher è, come si sa, un personaggio tormentato che trasforma in azione violenta ogni sua interazione con il prossimo(in scala diversa ma alla fine identica nella sostanza del ‘Violent Cop’ di Kitano). Non è ‘ solo’ un fumetto, è un personaggio molto più complesso di quanto il suo autore voglia che s’indaghi. Nel caso specifico risponde con una frase lapidaria. ‘Non mi importa cosa li ha fatti diventare così, o le ragione che li tengono in questa condizione. Le persone che uccidono muoiono comunque’. Non mi sembra ci sia da aggiungere altro. Il conflitto psicologico, l’anima oscura del protagonista si relazione con gli altri personaggi, la psicologa e il killer con una semplice battuta che può anche non piacere ma stabilisce un punto senza troppo girarci intorno. Poi l’azione procede. Si racconta una storia. Che poi quelle che mi capita di narrare prevedano spesso un ritmo sostenuto, morti ammazzati, capriole tra le lenzuola e scontri di caratteri forti dipende un po’ dal mio DNA e dalla mia formazione. Citando l’amico e collega Andrea Carlo cappi, K e basta per chi vuol andare diritto al sodo,sono convinto che noi tutti ( ‘la scuola dei duri?’) siamo in fondo dei narratori di spaghetti-western. Una, non l’unica forse ma una delle più importanti, radici del nostro lavoro è il cinema. Il cinema che vedevamo da bambini, quello di quello spavaldo numero di registi che con pseudonimi abborracciati o con il loro vero nome, riuscivano a farsi dare quello sporco pugno di dollari per girare western tra l’Abruzzo e l’Almeria e suscitavano l’indignazione di maestri statunitensi e critici baciapile locali perché ‘osavano’ fare un genere che non era nella nostra tradizione. Eh, quei registi lì ne hanno fatta mangiare di polvere ai loro modelli... e anche agli autori nostrani. Hanno raccontato storie robuste, non certo esenti da pecche, ma, a loro modo, paradossalmente italiane, inconfondibili per il tono picaresco, per il vigore jamesbondesco trasportato in Italia. E noi siamo i registi, gli sceneggiatori, i maestri d’arme di questo piccolo, magnifico cinema che è la narrativa popolare (popolare perché offre emozioni vere, comprensibili a tutti e a poco prezzo!). credete che scrivere una storia d’azione sia facile’ provateci... non pensiate che sia sufficiente aver visto un paio di film e letto un po’ di libri. No, bisogna aver visto e letto tutto ciò che c’è in giro con la curiosità e, sì, la passione per la storia che si vuol rappresentare. Chi finge si scopre, cala le brache o meglio,deve abbassarsi all’ordine che James Coburn impartiva... “Giù la testa... coglione!” in un film rimasto nella memoria di tutti. Non è forse necessario essere degli ammazzasette, le armi, persino i rudimenti del corpo a corpo sono utilizzati scenicamente per creare un effetto, un’emozione. Perché è questa che conta. Chi, tra i lettori, ha provato realmente la sensazione di essere trapassato da un proiettile? Pochi, mi auguro. Ma quella paura che ti prende quando Sali sul ring, il dolore, la sorpresa di ricevere un pungo magari in un contesto sportivo sono emozioni più vicine a quelle di un lettore. La paura soprattutto. Ma anche l’adrenalina. Descrivere una sequenza d’azione significa creare un ponte tra te e il lettore, comunicargli un brivido come se anche lui fosse lì al centro dell’azione. Non è tanto il realismo che conta ma la capacità di cogliere particolari magari insignificanti come lo stridore dello pneumatico sull’asfalto, il rumore del bossolo che rimbalza sul terreno, magari la sensazione dell’olio lubrificante surriscaldato. Forse vale più questo che la descrizione del calibro esatto dell’arma. E poi ci vuole il ritmo, la capacità di lasciarsi trascinare dagli eventi, di cucirli a dispetto magari della verosimiglianza. E come non ricordare le improbabili ma divertentissime avventure di OSS117 o di Nick Carter (Non quello di Bonvi!) così dense di mood che ti entravano nel sangue. come le copertine dei vecchi Segretissimo sismo disegnate da Jacono che, ancor prima di leggere il romanzo, ti colpivano come un proiettile di diamante in mezzo alla fronte?

Ecco, essere action writer vuol dire ‘vivere’ questa emozione e trasmetterla. A chi è in grado di recepirla.