Difficile considerarli dei Wuxiapian, storie di cavalieri erranti, nell’accezione classica del termine. Il filone cinematografico ripreso dalla cultura popolare fantastico- marziale dal cinema cinese (da Shanghai dai tempi di ‘Red Lotus Monastery’, 1928 e poi a Hong Kong negli anni 60/70 dalla Shaw Brothers) raccontava solo tangenzialmente storie a sfondo storico ma imponeva una dose massiccia di magia e sovrannaturale. Le storie dei cavalieri erranti XIA variamente mutilati, capaci di imprese mirabolanti armati o a mani nude, la lotta tra bene e male, tra principi e leggiadre fanciulle venute dal mondo dei morti al massimo si spingevano a ripercorrere le traversie amorose dell’imperatore-dio Huandi. Anche negli affreschi marziali di Zhang Cheh (‘Blood Borthers’ per esempio) qualcosa di sovrumano resta sempre, nella potenza della natura, nelle capacità marziali acquisite con infiniti dolore e dedizione. L’internazionalizzazione del cinema di Hong Kong nasce sotto il segno del gangster movie ma si sviluppa appieno attraverso un fraintendimento trasmesso da La Tigre e il Dragone’ di Ang Lee, regista cinese nelle origini ma ormai americano nella cultura come dimostrano la maggior parte dei suoi film. Eppure all’alba del 2000 ‘ La Tigre e il Dragone’ riesce con le sue immagini favolistiche, le coreografie di Yuen Woo Ping, i soldi che solo la macchina produttiva americana è capace di tirar fuori a far conoscere a milioni di occidentali una cultura millenaria contrabbandandola come novità. Lo stesso dicasi per ‘Matrix’ che altro non è la versione hollywoodiana del cyberpunk giapponese. La solita vecchia, provinciale arroganza del cinema occidentale che rimacina prodotti provenienti da mercati locali pompandoli di soldi ed effetti speciali. Spadaccini volanti, arti marziali, favole dove la mancanza di gravità e la poesia estetica si combinano in un nuovo universo. Tutto già visto, tutto già fatto. Ma da quel momento fioriscono grosse produzioni distribuite con maggiore o minore fortuna in tutto il mondo. ‘Hero’, ‘La foresta dei pugnali volanti’, ‘Il Mito’, La leggenda del lago maledetto” “La Legende du Scorpion Noir”,’ “The Shadowless Sword” E tanti altri titoli. In Italia arriva solo il materiale corredato da nomi noti, autoriali come Zhang Ymou - che scopre improvvisamente le sue radici culturali anche perché dei suoi filmini intimisti ai festival proprio non se ne può più - o estremamente popolari come Jet Li, ormai caricatura di se stesso tanto da prestarsi a baracconate come ‘La tomba dell’ imperatore dragone’ che mescola la ‘Mummia’, ‘Indiana Jones’ e il Wuxiapian in un unico calderone. Su questa scia il cinema asiatico ruggisce e propone moltissimi prodotti, molti dei quali anche ben realizzati ma che, raramente, arrivano sugli schermi se non a qualche festival dedicato. La Thailandia propone una interessante variante del filone dando il via un vero e proprio filone storico cavalleresco di cui ‘Bang Rajan’ e ‘La regina Suryothay’ sono forse i titoli di riferimento da cercare. Dalla Corea, nuovo calderone da cui escono film d’azione, horror e marziali di ottima qualità, inizia una piccola rivoluzione. Proprio nell’anno di ‘La Tigre e il Dragone’, viene prodotto in cooperazione con la Cina “Musa, il guerriero”, una vicenda storica condotta con toni mitici ma priva di sovrannaturale. Così accanto a titoli di ispirazione chiaramente fantasticocavalleresp come ‘Bichunmoo’ fanno capolino storie realistiche come ‘Sword on the Moon”. In Giappone forse solo Ruhei Kitamura pratica il filone storico ma sempre con un tocco fantastico ne sono esempio il bellissimo ‘Aragami’ sullo spadaccino Musashi e le avventure(ispirate a un manga famoso) della spadaccina ‘Azumi’ sviluppata in due capitoli. E negli ultimi anni, pur permanendo la nuova versione del Wuxiapian, comincia ad affermarsi un nuovo genere, più storico e ancorato alla realtà. Si tratta di vicende trattate in modo realistico anche se spettacolare come ‘ Les Seigneurs de la Guerre ’, “Kingdom of War”e il recentissimo ‘La battaglia dei Tre Regni’ firmato da John Woo al ritorno in Asia dopo più di un decennio di altalenanti e quasi mai soddisfacenti esperienze americane.
In origine il progetto prevedeva due film di lunga durata dal titolo inglese “The Red Cliffs”. Il concetto era riproporre parzialmente l’Era dei Tre Regni nati dalla caduta degli Han nel 220 d.C. e l’epica con cui la vicenda fu tramandata nel romanzo dell’epoca Ming(molto successiva). Una sorta di ‘Iliade’ cinese in cui di sovrannaturale in realtà c’è poco. Vicende di usurpatori, concubine, traditori ma anche onore e grandi battaglie. Una mescolanza di ingenuità patriottica ed emozioni umane che stupisce considerando che si tratta di una produzione di Partito che, lo vogliamo o meno, in Cina è ancora molto potente e tiene diritti umani e libertà del Tibet saldamente sottochiave. Ma John Woo non è regista da lasciarsi influenzare più del necessario. È sopravvissuto ai dettami puramente commerciali della produzione di Kong Kong dei primi anni ‘80, alla diaspora dei registi cinesi negli Usa sottoposti a ogni genere di influenza del marketing e ritorna al timone del suo progetto con la ferma volontà di realizzare una grande opera. Forse nel ricordo del maestro Zhang Cheh che fu ineguagliato cantore di storie in costume. ‘La battaglia dei Tre Regni’ arriva in occidente condensata in poco più di due ore ma, sotto il profilo del nostro metro di giudizio, mi sembra una giusta sintesi. Certo si intuisce, soprattutto dei due magnifici personaggi femminili, che un po’ della storia è lasciata all’intuizione, ma tutto risulta chiaro ed equilibrato. La difficoltà maggiore perl o spettatore che si lascia ingannare dalla pubblicità che annunci un nuovo capolavoro d’azione dell’Autore di ‘Face Off’ e di ‘MI-2’ sta nel primo quarto d’ora di film. Benché vi si inserita subito una spettacolare battaglia lo spettatore occidentale deve abituarsi all’introduzione della voce fuori campo tipica orientale e necessari per l’inquadramento storico di una vicenda non particolarmente nota in occidente. Oltre a ciò anche chi, come me, ha dimestichezza con volti e divi del cinema orientale(tra tutti Tony Leung e Takeshi Kaneshiro), i costumi variegati e il numero degli attori principali crea qualche momento di incertezza. Ma ben presto il soffio mitico della storia aiuta a comprendere i meccanismi. Sul campo le forze sono schierate, magari in maniera un po’ manichea ma non priva di ambiguità e sfumature. Guerrieri ed eroine, tiranni e strateghi i personaggi hanno tutti un doppio aspetto che li sottrae a caratterizzazioni troppo distinte. L’uso del CGI fortunatamente è limitato e la ricostruzione delle battaglie come di altri movimenti di massa è eseguita con comparse vere che rendono l’azione più sentita, umana. Non ci si aspetti il Woo delle sparatorie al rallentatore,soprattutto nella favolosa battaglia finale la mano del Maestro torna brevemente a farci assaporare il brivido del Mexican Stand-off, il caprioleggiare dei corpi ma si tratta di un affresco realistico. Qualcosa, nei personaggi, rimanda a uno dei primi Wuxia di Woo ‘ Last Hoorray for the Chivalry’ ma, fondamentalmente si tratta di un’opera a sé, matura proprio perché esente da certe esagerazioni giovanili che pure hanno avuto la loro importanza sull’evoluzione del genere. Un film da vedere e rivedere, pieno di dettagli che vanno gustati e apprezzati dopo aver seguito la vicenda. Una strada nuova per il cinema in costume marziale. Dall’alto delle Montagne di Sung, nella Corte di Giada, i maestri King Hu e Zhang Cheh approverebbero senz’altro.
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