Dopo aver girato tutto il mondo, collezionando premi e riconoscimenti, arriva infine in Italia “La battaglia dei Tre Regni”, fusione compressa di due film: “Red Cliff” (Chi bi, 2008) e “Red Cliff II” (Chi bi xia: Jue zhan tian xia, 2009). Alla regia troviamo John Woo nell’evento che segna il suo ritorno asiatico dopo quindici anni di assenza: nel 1993 infatti era sbarcato negli States per dirigere “Senza tregua” (Hard Target) con Jean-Claude Van Damme; dopo aver diretto una decina di film, nel 2007 cura il videogioco “Stranglehold” (basato su temi e personaggi di molti suoi film del periodo di Hong Kong), poi ecco il ritorno in Asia. Non ad Hong Kong, però, patria della sua nascita come regista, bensì nella natia Cina che da diversi anni ha voglia di celebrare la propria storia con kolossal costosi. Una storia di parte, inutile negarlo, adottando quello che Federico Rampini (come vedremo più avanti) definice «un revisionismo storico non raro tra gli intellettuali e gli artisti cinesi della generazione dei cinquantenni e quarantenni.» Resta il fatto che la millenaria storia cinese è ricca di avvenimenti degni d’essere raccontati.
Nell’inverno fra il 208 ed il 209 d.C., l’ultimo primo ministro della decadente Dinastia Han, Cáo Cāo, cercò di fermare l’evidente crollo della Dinastia restaurando il potere imperiale su tutto il regno. Dopo una vittoriosa campagna in cui aveva unificato la Cina del Nord, Cáo Cāo ne iniziò un’altra per il controllo del Sud. Ma in quell’inverno il primo ministro si trovò davanti all’alleanza degli altri due potenti regni, governati da Liu Bei e Sun Quan. I due signori della guerra strinsero alleanza ed affrontarono la superiorità numerica di Cáo Cāo, vincendolo nella battaglia navale delle Cime Rosse (Red Cliffs) e scacciandolo dalla provincia del Jingzhou. (In seguito Sun Quan attaccò il vecchio alleato Liu Bei ed ottenne il controllo dell’intero Jingzhou, ma questa è un’altra storia!)
Questi ed altri eventi storici, fino all’unificazione totale dei Tre Regni nel 280, sono stati narrati in forma epico-poetico-letteraria dal “Romanzo dei Tre Regni” (Sānguó yănyì), narrazione tramandata in forma orale e pubblicata in forma scritta solamente fra il 1321 ed il 1323. La paternità è attribuita allo scrittore Luo Guanzhong, che in quest’opera racchiude cronaca storica, poesia ed epica letteraria creando quello che viene definito uno dei quattro grandi testi classici della letteratura cinese.
Il film di John Woo parte dal quarantesimo capitolo del “Romanzo”, quando cioè Cáo Cāo decide con la forza di attaccare la città di Xinye dando così il via ad una campagna di sottomissione del signore della guerra Liu Bei. Il primo film mostra la nascita dell’alleanza di Liu Bei con Sun Quan e la prima eclatante vittoria su terra. Il secondo film racconta l’addestramento e la preparazione alla maestosa battaglia navale, che segnerà i destini dei Tre Regni.
Woo confeziona un film tecnicamente e stilisticamente impeccabile: colossali scene di massa come non se ne vedano da tempo al cinema; costruzioni immani e tutto quanto può creare sensazione sul grande schermo... ma il Romanzo dei Tre Regni non è niente di questo!
Il testo di Luo Guanzhong è un romanzo fatto di uomini (i personaggi nel testo sono migliaia!), costruito sulle loro emozioni, su difetti e virtù. È anche un poema: la narrazione infatti è continuamente arricchita da poesie (e la versione arrivata a noi, si è scoperto, è stata di gran lunga depurata del materiale poetico!). Il film di John Woo dimentica tutto questo (a parte una piccola concessione: la poesia che Cáo Cāo recita prima della battaglia navale), dimentica l’epos che ha reso celebri molti film dei suoi connazionali (come Chang Cheh), dimentica l’importanza che nel testo trecentesco hanno i personaggi e dirige un film storico che può essere considerato null’altro che una spettacolare e minuziosa cronaca di guerra.
Anche la versione estesa della durata di più di quattro ore risulta frenetica e frammentata: sono troppi gli avvenimenti da raccontare e non sembra esserci spazio per approfondire le psicologie dei personaggi, i quali vengono percepiti dallo spettatore esclusivamente in base al loro agire. Grandi attori come Tony Leung (nel ruolo di Zhou Yu, vicerè di Sun Quan) e Takeshi Kaneshiro (nel ruolo dello stratega Zhung-ge Liang di Liu Bei), bravi attori come Vicki Zhao (nel ruolo della principessa Sun Shang Xiang, sorella di Sun Quan) e Zhang Fengyi (nel ruolo di Cáo Cāo), bravi caratteristi come Shido Nakamura (nel ruolo del generale Gan Xing, allenatore delle truppe di Sun Quan) o Jun Hu (nel ruolo del generale Zhao Ziong, che salva il figlio di Liu Bei ad inizio film): tutti sono gettati nel calderone senza una vera caratterizzazione, se non quella archetipica del film di “guerra d’eroi”.
Un grande film, va precisato e ribadito, una grande operazione per una grande storia, ma alla fine rimane in bocca l’amaro della perdita dell’epica, della passione e della poesia che in altri casi la cinematografia asiatica aveva regalato. L’unica eccezione che Woo dona al suo pubblico è la sua “firma”: una colomba bianca, presente in tutti i suoi film, che in questo vola sopra tutto e tutti, in una scena memorabile.
Va notato che nel 2008, mentre la Cina produceva Red Cliff, Hong Kong ha prodotto una specie di sequel del film: “Three Kingdoms: Resurrection of the Dragon” (Saam gwok dzi gin lung se gap), diretto da Daniel Lee ed interpretato da un manipolo di grandi nomi del genere.
Dopo che Cáo Pi, figlio di Cáo Cāo, è divenuto imperatore del Regno di Wei, sua figlia Cao Ying (assente nel romanzo di Luo Guanzhong ed interpretata da Maggie Q) invade il Regno di Shu, dove troverà a confrontarla il generale Zhao Zilong (interpretato da Andy Lau), addestrato sotto Liu Bei. Il film racconta la lunga vita di Zhao Zilong contornando il racconto con personaggi inventati per l’occasione, come il Luo Ping’an interpretato dal “mostro sacro” Sammo Hung.
Questo novello interesse per la maestosa rappresentazione storica fa tremare l’etichetta che di solito si attribuisce al genere: wuxiapian, film di cavalieri erranti che, dagli albori della cinematografia asiatica, hanno volato in lungo e in largo portando sullo schermo eventi storici, sì, ma totalmente immersi in atmosfere magiche. Il film storico (che si è spesso anche sposato con il gongfupian, il cinema di combattimenti a mani nude) sembra ora divorziare dal genere che di più l’ha rappresentato: una scissione che trova il più fulvido rappresentante proprio in questo film di John Woo, dove nessuno vola ed anzi le azioni sembrano minuziosamente studiate per essere il più reali possibile. Il pubblico occidentale, storicamente mai del tutto interessato al wuxiapian, potrà apprezzare questa scissione, ma quello che forse dispiace è l’abbandono anche dell’epica. Eppure è possibile individuare forse l’ultimo film che raccogliesse in sé il wuxiapian, l’epica e il film storico: “Hero”...
Nel 2002 ha riscosso enorme fama in Asia (arrivando negli USA e in Europa grazie all’interessamento della Miramax su consiglio di Quentin Tarantino) il film “Hero” (Yīnxióng) diretto da Zhang Yimou, sontuosa e poetica ricostruzione storica di uno degli eventi più importanti della storia cinese. Nel 221 a.C. Ying Zheng, signore del regno di Qin, portò a compimento una lunga e sanguinosa campagna militare con l’obiettivo di unificare i sette regni in cui era diviso il Paese: «tutti sotto lo stesso cielo», si dice nel film. Ying Zheng divenne così Qin Shi Huang, primo imperatore di Qin (pronuncia: “cin”, da cui il nome Cina): il paese da allora unificato ha una sola lingua, una sola moneta, un codice legale ed unità di misura uniformate. Si inizia inoltre la costruzione della muraglia cinese. Lo “Shiji” (Cronache della Grande Storia), scritto dallo storico Sima Qian intorno al primo secolo dopo Cristo, racconta che poco prima che Ying Zheng raggiungese il suo scopo fu vittima di un complotto quasi riuscito. Un assassino di nome Jing Ke riuscì ad arrivare a pochi passi dal sovrano, cercò di ucciderlo ma fallì, venendo ferito dal sovrano stesso e poi ucciso dalle guardie.
Qin Shi Huang è sempre stata una figura molto amata, ed è stato citato in opere provenienti da tutto il mondo: dai videogiochi ai fumetti, da film a telefilm e sceneggiati. Nel 2000 esce in Italia “L’imperatore e l’assassino” (Jing Ke ci Qin Wang, 1998) diretto da Chen Kaige, lungo film farraginoso e molto dispersivo che vuole dare una visione romanzata, sì, ma fedele degli avvenimenti. (Una curiosità: il ruolo di Jing Ke, l’assassino dell’imperatore, è interpretato da Zhang Fengyi, che ricopre il ruolo del perfido Primo Ministro Cáo Cāo ne “La battaglia dei Tre Regni”)
Il film “Hero” si discosta dai propri predecessori, in quanto abbandona dichiaratamente ogni fedeltà storico-letteraria, creando un poema per immagini di rara bellezza e potenza. In una storia dai sapori rashomoneschi (gli avvenimenti cambiano, come cambiano i colori degli abiti dei protagonisti, ogni volta che vengono raccontati) si muovono dei personaggi accomunati originariamente dall’intento di uccidere l’imperatore, che sta spazzando via gli altri regni per seguire il suo sogno di unificazione, poi però qualcosa cambia. Forse vivere «tutti sotto lo stesso cielo» non è poi una pazzia: nel momento decisivo, l’ultimo assassino rimasto in vita, Senza Nome (interpretato da Jet Li), malgrado abbia in mano la vita del sovrano decide di non ucciderlo, votandosi all’estremo sacrificio convinto che il futuro Regno di Qin (la Cina appunto) sarà la scelta migliore per il suo popolo.
Nel cast di prima categoria del film spicca anche Tony Leung, presente anche nel successivo “La battaglia dei Tre Regni”, ma con un’enorme differenza: lo spessore del suo personaggio in quest’ultimo film è descritto esclusivamente dal suo agire, mentre in “Hero” interpreta con passione un’anima inquieta, un ribelle assassino che compie il gesto più arduo per lui: convincersi che forse il “Potere” che sta lottando ha ragione!
Un film dove ogni inquadratura è un quadro, dove ogni colore sembra studiato, “Hero” affonda le radici nell’anima più profonda della cultura cinese, diretto da chi la Cina l’ha vissuta negli aspetti sia negativi che positivi. Sei fra i più grandi attori viventi di Hong Kong danno vita ad una storia che sembra sospesa fra il cielo e il mare: e tutti infatti, nella più antica tradizione del wuxiapian, volano sospesi fra questi due elementi.
Federico Rampini, per anni corrispondente da Pechino del quotidiano La Repubblica, nel suo saggio Il secolo cinese (Mondadori 2005) pone l’accento sul revisionismo storico presente nel film “Hero”, che altro non è che testimone della corrente che dalla metà degli anni Novanta sta prendendo piede nel mondo cinese. «È la legittimazione dell’ordine imperiale – scrive in merito alla figura del sanguinario imperatore – della stabilità ottenuta attraverso il dispiegamento degli eserciti. Le vittime umane sono un prezzo da pagare per fermare il caos.»
Al di là dell’interpretazione degli eventi storici, il cinema cinese si sta dimostrando all’avanguardia in questi anni nell’investire in film di grande effetto che raccontano eventi della propria storia passata. In realtà l’ha sempre fatto, sin da quando esiste il cinema, ma la scarsità di mezzi (e spesso il gusto visivo) ha fatto sì che splendidi film restassero appannaggio di pochi appassionati. Si spera però che, accanto a costose e sontuose cronache di guerra, si continuino a girare quei film per cui il cinema cinese è sempre stato famoso: film epici. Magari a basso costo ma in cui siano gli uomini ad esser protagonisti, non le loro decisioni belliche.
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