Il grande scrittore di Providence, H.P. Lovecraft, non è certo l’inventore del grande “gioco degli pseudobiblia”, ma di sicuro è stato un grande creatore di libri inesistenti nonché fonte ispiratrice per amici e colleghi, i quali si sono uniti al suo gioco creando (come abbiamo visto nelle precedenti rubriche) un grande numero di pseudobiblia da “scambiarsi” l’un l’altro.
Ci sono però autori, a volte coevi, non collegati fra loro e che hanno creato pseudobiblia “orrorifici” di non minore levatura: eccone una breve presentazione.
Nel lontano 1804 il britannico Thomas de Quincey scrive “Il patto” (The Misterious Knight), racconto di una dannazione, di una resa al volere diabolico.
La famiglia Schroll ha antenati molto antichi, e si dice che nel Seicento uno dei suoi esponenti abbia avuto rapporti con il Diavolo. Non si sa bene quali siano stati questi “rapporti”, ma si sa che esiste un secrétaire con all’interno un libro manoscritto, datato 1630, che racconta tutto.
Più d’un secolo dopo, Elias Schroll, in punto di morte, legge quel libro che la sua famiglia custodisce gelosamente da anni... e poi lo getta subito fra le fiamme di un camino. Rimproverato dal figlio Rudolph, Elias decide di spiegare al primogenito il perché di quell’azione: nel libro, infatti, c’è scritto che proprio il giovane Rudolph Schroll sarà l’ultimo della casata e che gli verrà proposto un patto col demonio. Non è specificato se lui accetterà, ma tanto basta ad Elias per distruggere il libro.
Quella che segue è la storia della vita e della dannazione di Rudolph, l’ultimo degli Schroll, e non sapremo mai né il titolo del libro né il nome di battesimo di quello Schroll che nel 1630 lo scrisse.
Un altro libro senza nome lo ritroviamo cent’anni dopo, nel 1908, quando Montague Rhodes James, celebre autore di storie “misteriose”, concepisce un particolarissimo pseudobiblion. Nel racconto “L’album del Canonico Alberico” (The Canon’s Alberic Scrapbook) si parla sì di un libro che non esiste... ma questo è formato da “pezzi” tagliati da libri che esistono!
Il protagonista, Dennistoun, si ritrova a visitare St. Bertrand de Comminges, sui Pirenei, nella primavera del 1883. Dopo aver visitato i luoghi, il prete del villaggio ha notato l’interesse del turista verso i manoscritti, e così gliene sottopone uno che ha in casa. Il turista, appena vede il librone, capisce subito di aver messo le mani su qualcosa di inconsueto: si tratta infatti di un “collage” di vari testi provenienti da varie ere. Addirittura, forse, si parla di pagine provenienti da codici dell’VIII secolo!
«Una tale raccolta aveva fatto parte solo dei sogni più sfrenati di Dennistoun. Lì c’erano dieci pagine di una copia della “Genesi” con illustrazioni, che non potevano essere posteriori al 700 d.C. Poi c’era una serie completa di illustrazioni di un Salterio fatto in Inghilterra, il più raffinato esemplare che il secolo XIII potesse produrre; ma forse il meglio di tutto erano una ventina di pagine in scrittura onciale in latino che, come capì da poche parole qua e là, dovevano appartenere a un antichissimo e sconosciuto trattato patristico. Che fosse un frammento del testo di Papias “Sulle parole di Nostro Signore”, la cui presenza a Nimes era stata accertata nel secolo XII?»
Tutti libri esistenti, dicevamo, ma l’esser stati messi in quell’ordine e in quel modo, rende l’opera finale uno pseudobiblion!
Preso dalla smania di appropriarsi del tesoro trovato, l’inglese non si chiede come mai il prete sia contento, anzi sollevato di privarsi del codice redatto da Alberico de Mauléon, canonico dal 1680 al 1701. Il motivo lo scoprirà a sue spese, così come lo scoprì Alberico: le illustrazioni demoniache presenti in alcune pagine, infatti, non evocano solo metaforicamente il diavolo... lo evocano sul serio!
Gustav Meyrink, il grande creatore de “Il Golem” (personaggio usato in modo assolutamente improprio dal cinema, che l’ha spesso distorto), è un autore che ama l’onirico, il surreale e le tremende conseguenze che questi possono avere sulla vita reale. Si affida spesso ai sogni, o ai racconti o alle fiabe, con il loro pesante carico di triste realtà: la si può negare e la si può ignorare, ma la realtà è la nuda terra su cui crescono tutte le fantasie umane.
Ed è proprio a contatto con la nuda terra, con la “vile” terra, che Radspieller vive. Questo personaggio, protagonista del racconto “Il cardinale Napellus” (Der Kardinal Napellus), è quasi un eremita, abita in un castello diroccato, e passa le sue giornate nel tentativo di misurare la profondità del lago del suo paese; per far questo, immerge una sonda nelle acque cercando di farla arrivare alla terra che ricopre la profondità lacustre. Perché tutto, nel mondo, in fondo in fondo poggia sulla nuda terra...
Il motivo del suo presente, come per ogni uomo, va ricercato nel suo passato. Radspieller ha fatto parte di una setta religiosa, i Fratelli Azzurri (ma li chiama anche Monaci Azzurri), il cui simbolo è l’Aconitum napellus, o napello blu. La loro fede impone di irrorare le piante del loro giardino col sangue fuoriuscito da ferite autoinferte. La motivazione giunge da un testo antichissimo, il “Codex Nazaraeus”, datato addirittura al 200 avanti Cristo! In esso si legge: «Chi fino all’ultimo col suo sangue irrora la mistica pianta sarà da essa fedelmente accompagnato fino alla porta della vita eterna; ma al sacrilego che la strappa essa apparirà innanzi come la morte, e lo spirito di costui dovrà errare lontano nelle tenebre, finché non giunga di nuovo la primavera!»
Quando però Radspieller si rende conto che il Codex non è altro che un inganno per soggiogare gli adepti, che col loro sangue non nutriranno altro che le proprie inutili e vane speranze di misticità, abbandonerà la confraternità di nascosto, fuggendo e nascondendosi in uno sperduto paesino di montagna, a stretto contatto con la nuda terra, divenendo quasi egli stesso una pianta da irrorare col sangue della rinuncia alle speranze...
Nel 1929, all’inizio dell’esplosione dei “Miti di Cthulhu”, Frank Bellknap Long non volle essere di meno e decise di partecipare a quell’enorme gioco letterario imbastito da molti scrittori, amici e colleghi. Così sul numero di marzo di quell’anno di “Weird Tales” fece uscire “I segugi di Tindalos” (The Hounds of Tindalos), racconto classico sulla reazione che può manifestare un essere umano quando viene a contatto con... l’inumano!
Halpin Chalmers, esattamente come tutti i protagonisti di storie horror, non crede nella scienza, ma ha profonda fiducia nei risultati ottenuti con potenti droghe. Stranamente, l’uso sconsiderato di droghe, un comportamento cioè che offusca totalmente i sensi, è considerato foriero di risultati più “pratici” che una ricerca scientifica, che si basa cioè su fatti concreti! Chalmers non la pensa affatto diversamente, e così per carpire i segreti della quarta dimensione (il tempo), assume un’ingente quantità di una droga molto molto rara (ma che si è procurato senza difficoltà!) e comincia a... viaggiare...
Non ci vuole molto per capire che il protagonista finirà male, ma a testimonianza della propria esperienza lascerà un diario incompiuto, intitolato “Gli osservatori segreti”. Sì, perché durante i suoi “viaggi”, Chalmers ha scoperto che esistono esseri totalmente estranei a qualsiasi umanità, i segugi di Tindalos, che si nutrono di sangue (non si capisce perché, visto che sono inumani!) e che vogliono punirlo perché lui ha scoperto il loro segreto.
Ma lasciamo la parola a Chalmers e all’unico brano riportato del suo diario: «Che cosa accadrebbe se, parallela alla vita che conosciamo, esistesse un’altra vita che non muore, e che manca degli elementi che distruggono la nostra vita? Forse, in un’altra dimensione, c’è una forza diversa da quella che genera la nostra vita. Forse questa forza emette energia, o qualcosa di simile all’energia, che passa dalla dimensione sconosciuta dove essa esiste e crea una nuova forma di vita cellulare nella nostra dimensione. Ah, ma io ho visto le sue manifestazioni. Ho conversato con loro. Nella mia stanza, di notte, ho parlato con i Doel. E in sogno ho visto il loro creatore. Sono stato sulla riva oscura al di là del tempo e della materia, e l’ho visto. Si sposta fra strane curve e angoli acuti. Un giorno, io viaggerò nel tempo e l’incontrerò “faccia a faccia”.»
Due racconti in cui il sangue è “pietanza”, dunque, questo di Long e il precedente di Meyrink, anche se molto diversi fra loro.
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