“Di tutti e di nessuno” è il tuo ultimo romanzo, appena uscito per Kowalski. Si può definire il Cantini 3 perché torna la tua creatura letteraria, Giorgia Cantini. Ce lo introduci?

Sì, io lo chiamo confidenzialmente il Cantini 3 perché Giorgia Cantini è diventata per me un’entità che vive di vita propria. Per farti un esempio, tempo fa ho detto a un fidanzato di cui subodoravo una scappatella: “Guarda che ti mando dietro la Cantini!”. A parte gli scherzi, ogni volta che cerco di liberarmene, ritorna, e penso che ciò succeda o sia successo a molti scrittori alle prese con personaggi seriali. Ci si affeziona a loro, e un po’ li si detesta. Resta il fatto che questo terzo romanzo della serie a me personalmente sembra il più riuscito, perché ho dato a Giorgia toni meno cupi e introspettivi, perché ci sono più chiari che scuri, e una trama che è tipicamente, artigianalmente, poliziesca.

 

Uno dei temi affrontati in questo romanzo è quello della violenza sulle donne. Quale pensi che sia, a riguardo, la situazione attuale?

Nel romanzo, che sottolineo è un romanzo, dovendo parlare anche di violenza avevo bisogno di una credibilità sociologica. Per questo ho chiesto una mano alla Casa delle Donne di Bologna e a poliziotte che si sono occupate di casi di stupro. Il loro aiuto è stato fondamentale… Penso che anni di manipolazione mediatica abbiano riportato la condizione delle donne a tempi bui, anche se l’involuzione del costume non ha degradato solo le donne. Se la cultura è all’ultimo posto delle priorità della nostra politica non ci si può sorprendere che le donne siano le prime a essere colpite, insieme ai giovani, ai gay e agli immigrati. Poi c’è tutto un discorso sull’inadeguatezza maschile che in troppi casi diventa sopraffazione, ed è un discorso lungo. Diciamo che il sottotitolo di “Di tutti di nessuno” potrebbe essere “Uomini che odiano le donne”, senza la presunzione però di aver eguagliato quel capolavoro.       

Quali emozioni ha suscitato in te l’empatia che, come scrittrice, avrai sicuramente provato? In particolare quali durante la stesura e quali durante la rilettura?

Molta empatia, sì, perché ovviamente credo di conoscere meglio le donne degli uomini. Ma è la stessa empatia che provo se parlo di pedofilia, di maltrattamenti verso gli animali o di casi di ingiustizia pubblica e privata. Sono un’ipersensibile, e questo mi fa vivere male ma è senz’altro di aiuto alla scrittura… “Di tutti e di nessuno” è un romanzo nato in tre mesi di full immersion, più sei, sette mesi di correzioni. Alla fine ero stremata e c’è voluto un po’ di tempo per riprendermi. Ma se si vuole produrre qualcosa di sentito, di vero, o almeno provarci, non esistono mezze misure.

Ti rivolgo la stessa domanda anche in merito al precedente romanzo, “Tutto il freddo che ho preso” (Feltrinelli, 2008).

Quello è un romanzo fortemente malinconico, non ha i respiri larghi dei miei romanzi cantiniani, è una sorta di drammaturgia esistenziale dove l’immedesimazione con Sandra (la donna che ha perso un figlio) e con Giulio (lo scrittore “bloccato”) sono andate di pari passo. E’ un libro sofferto, emotivo. L’amico Raul Montanari lo ha definito un “post noir”…  

Quanto conta la musica nella tua vita e nelle tue opere? Ce lo puoi spiegare musicalmente?

I tempi dispari di Frank Zappa, il crossover romantico dei Sigur Ross, la voce profonda di Nico, l’ironia di Leo Ferrè… Diciamo che ho parecchie ispirazioni musicali… E che un romanzo come “Viaggio al termine della notte” di Celine io l’ho “ascoltato” più che “letto”. La Cantini è una nostalgica della new vave anni ’80, in “Tutto il freddo” c’è il jazz…Tendo ad affrontare un romanzo come uno spartito musicale. Forse perché ho messo le mani su un pianoforte a otto anni e la musica è stata ed è essenziale nella mia vita. Sintesi, ritmo, fluidità, accordi minori e maggiori, la preparazione della strofa, la suspance del refrain… Cerco di mettere tutto questo nelle parole. Ovviamente, non sempre ci riesco.

Oltre alla musica vorrei parlare della tua voce. Arrivi dal teatro, sei stata speaker e doppiatrice, sei cantante e presentatrice di incontri culturali. Qual è il complimento più bello che hai ricevuto sulla tua voce?

Siamo in fase protetta? Scherzo… Però è vero che qui ci vorrebbe il bollino rosso. Soprattutto se ripenso agli anni in cui doppiavo film hardcore… Quando cantavo i miei pezzi, ai tempi del disco eccetera, ero la classica cantautrice che interpreta i propri brani in modo personale, quasi recitandoli. Con gli anni il bello è che la voce perde i suoi orpelli, i suoi birignai e diventa più nuda, più povera, quindi più autentica. Avrei voluto fare la doppiatrice di professione, ma per farlo a più alti livelli mi sarei dovuta trasferire a Roma o Milano. Peccato…

Ora provo emozioni bellissime a sentire le attrici recitare un mio testo (come è successo per “From Medea”). Solo il teatro riesce a darti quella magia istantanea, e devo dire che stare in poltrona mi piace molto di più che stare in scena.

Qual è invece lo shining del talento della parola?

Il talento è un istinto. Puoi esprimerlo in tanti modi, anche facendo una torta. Io mi considero da sempre un’eclettica un po’ disperata: a parte dipingere direi che ho provato tutto. La scrittura è più vicina alla mia indole solitaria, che si espone malvolentieri in pubblico, anche perché sono un’ansiosa e non mi piaccio mai. Però, sinceramente, dopo un anno a lavorare a un disco che uscirà a gennaio e che è nato tra amici, mi è tornata la voglia di fare reading e concerti. La musica ti permette di trasmettere emozioni in modo immediato, istintivo, irrazionale: è più fisica e liberatoria della scrittura. Un’altra cosa che per me è importante, avendo 45 anni, è sostenere il talento giovanile, che ha il potere di commuovermi. Sempre. Perché ce n’è tanto in giro, e non trova spazi e occasioni sufficienti per esprimersi al meglio.

Ti hanno mai fatto notare che molti titoli dei tuoi romanzi  (“Di tutti e di nessuno”/“Velocemente da nessuna parte”/“Tracce del tuo passaggio” /"Tutto il freddo che ho preso”) sono titoli apparentemente affermativi ma che celano in sé una negazione o uno stato metaforicamente negativo (il freddo, ad esempio. O l’assenza velata nelle tracce). Casualità o indizio? Se fosse un indizio, dove porterebbe?

No, solo tu adesso… Alle 15 ho la seduta col mio psic… che faccio? glielo chiedo?

“Tracce del tuo passaggio” (Fernandel, 2002) è una raccolta di trenta racconti brevi, una meditazione narrativa sulla consistenza effimera del tempo...

“Tracce del tuo passaggio” è una serie di fotografie di incontri senza avvenire. Sarà che la mia è una generazione che non sa tenere le cose e preferisce lasciarle andare. É un po’ il romanticismo di cui parlava Firzgerald: quello strano bisogno che le storie non durino, quella libertà di passare dalle braccia di qualcuno a quelle di qualcun altro (per citare Gregory Corso). Insomma, siamo diventati un po’ tutti “autistici” nei sentimenti, abbiamo smesso di rischiare e giochiamo sempre in difesa. Siamo dei laureandi in “paura”. E di questo parliamo nei romanzi.

Com’è la tua percezione del tempo? Facci un esempio pratico di quando scorre velocissimo e di quando non passa mai.

Banalmente, scorre velocissimo quando qualcuno mi porta al Luna Park, e non passa mai quando aspetto la telefonata della persona che mi ci dovrebbe portare…

Prima che corriamo in libreria a comprarlo, ci saluti con una citazione dall’ultimo Cantini “Di tutti e di nessuno”?

Vi saluto con la citazione che apre il romanzo, e che è dei Clash: “…Just freedom to take a walk in the park at midnite…”… Ciao!

Bibliografia

L’amore è un bar sempre aperto (Fernandel, 1999)

Fuck me mon amour (Fernandel, 2001)

Tracce del tuo passaggio (Fernandel, 2002)

From Medea (Sironi, 2004)

Quo vadis, baby? (Mondadori, 2004, poi Oscar Mondadori nel 2007)

Velocemente da nessuna parte (Mondadori, 2006, poi Tascabili Feltrinelli, 2009)

Tutto il freddo che ho preso” (Feltrinelli, 2008)

Di tutti e di nessuno (Kowalski, 2009)