C’era una volta (ma neppure tanto tempo fa…) la nouvelle vague del noir scandinavo.
Lettori abituati da decenni alle gesta di cerebrali detective britannici – incerti tra una tazza di tè e una soluzione di cocaina al 7% in vena per stimolare le cellule grigie – o di adrenalinici investigatori d’Oltreoceano – sopravvissuti per puro caso all’ultimo pestaggio e alle atrocità dell’ennesimo serial killer – avevano scoperto via via le gioie del noir provinciale – brumoso o mediterraneo – di casa nostra, l’impegno politico di quello catalano e, finalmente, l’acuta analisi sociale di quello nordico.
Mankell, coi nove volumi del ciclo di Kurt Wallander e con un paio di spin off, aveva infatti sfondato non soltanto in patria, ma in Europa e anche da noi grazie all’intuizione della Marsilio che aveva avuto il coraggio di proporlo al pubblico italiano; e, dopo di lui, un diluvio di noir scandinavi, di livello peraltro assai diverso, si era abbattuto sulle nostre librerie.
Da allora però è trascorso all’incirca un decennio, Mankell si è stancato del suo problematico eroe e intanto lo tsunami Stieg Larsson ha sconvolto strategie editoriali e orizzonti d’attesa dei lettori: e così fa un po’ tenerezza in questi giorni la fascetta editoriale che riveste l’ultimo thriller di Mankell, Il cinese, nella quale si celebra il superamento delle 50.000 copie vendute, risultato che pure in Italia è un gran successo; ma, sugli stessi scaffali, il già citato Larsson sbandiera prestazioni dieci volte più consistenti.
Come mai questa così marcata differenza tra i due autori? Perché i lettori non premiano con lo stesso entusiasmo il decano del noir svedese?
Innanzi tutto è emerso con maggiore evidenza uno dei difetti, per così dire congeniti, degli autori soprattutto svedesi, la propensione cioè a diluire l’intreccio in un diluvio di pagine che raramente è inferiore alle 500; ma mentre prima della Trilogia “Millennium” di Larsson il lettore metteva in conto un po’ di sana noia nel seguire gli involuti sentieri di certi narratori nordici, ora s’è fatto più esigente: a parità di lunghezza, nei libri con Blomqvist e la Salander ci sono molte, ma molte più cose che accadono e molti, ma molti più pugni nello stomaco del lettore.
In secondo luogo il grigio Wallander a suo modo aveva fascino, un po’ stropicciato magari, ma tale da conquistare lo zoccolo duro dei fan più affezionati; la giudice Birgitta Roslin, il personaggio nuovo di zecca protagonista de Il cinese, sembra invece una versione femminile e un po’ sbiadita del nostro commissario: anche lei in crisi matrimoniale, anche lei con problemi di salute, ma la sua indagine è confinata al tempo libero con una trasferta non del tutto verosimile in Cina per chiarire alcuni oscuri dettagli relativi ad una strage avvenuta in un paesino del nord della Svezia.
In terzo luogo l’ambientazione del romanzo spazia dalla Svezia dei giorni nostri alla Cina appunto, ottocentesca e contemporanea, con puntate negli USA della conquista del West e nell’Africa post-Guerra Fredda: troppo, decisamente troppo e l’attenzione del lettore fatica ogni volta a riprendere il filo della vicenda.
Infine, ma ci sembra il difetto più grave, Henning Mankell finisce per identificarsi persino troppo con la sua giudice; certi innamoramenti giovanili per l’ideologia maoista, l’acuta disillusione per l’involuzione della società svedese in questi ultimi decenni, una poco mascherata simpatia per i conservatori comunisti in Cina e per alcuni figuri del panorama politico postcoloniale africano suscitano una fastidiosa orticaria nel lettore mediamente informato sui fatti di politica estera.
Passi infatti l’analisi spietata del modello socialdemocratico svedese: la nostra conoscenza superficiale e stereotipata di quella società ci consente una distanza che ci fa apprezzare persino le rigidità ideologiche dei vecchi Sjöwall & Wahlöö; possiamo concordare anche sulla – definiamola così – disinvoltura etica di certi uomini politici e gnomi della finanza della nuova Cina: ma rimpiangere il buon vecchio Mao e i dinosauri del Partito Comunista Cinese è davvero troppo. Senza contare che la giustificazione della politica razzista (all’incontrario) di Mugabe nello Zimbabwe si può capire solo nell’ottica di un Mankell che trascorre sei mesi all’anno poco lontano da lì, in Mozambico, e deve pur campare…
Potremmo infierire anche su certi risvolti della trama un po’ troppo ottocenteschi (una sorta di vendetta alla Montecristo che, di generazione in generazione, si irradia dalla triste vicenda di Wang San, cinese rapito dalla sua Canton a metà dell’Ottocento, per arrivare allo sterminio di un intero villaggio svedese ad opera di un killer misterioso): ma, riconosciamolo, certe soluzioni narrative e certe efferatezze alla Larsson sono ancor meno digeribili, in un’ottica di pura verosimiglianza.
Nel complesso, però, ci rimane l’amaro in bocca con una sensazione assai simile a quella provata di fronte a certe ultime opere cinematografiche di Oliver Stone: costruite con perizia, svolte con professionalità, ma imbarazzanti per certi innamoramenti politicamente adolescenziali.
Voto: 6 (alla memoria)
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