Il Biondo era un vecchio barbone di cui non si sapeva nulla, comparso in stazione da qualche mese, con gli scarponi ai piedi, e un cappotto da italiano al fronte. Nessuno lo aveva mai visto lavarsi o mangiare, a volte canticchiava, oppure suonava una piccola armonica, e parlava con gli altri solo per chiedere una sigaretta o per avere quelle mille lire da spendere in un bicchiere di bianco al bar della stazione.
Puzzava. Però non disturbava, non litigava e non urlava mai, anche se le mamme cercavano di tenere i bambini distanti da lui per un irrazionale senso di paura. Non parlava neanche da solo, come invece fanno tanti altri nella sua condizione, e camminava su e giù a volte in modo quasi mistico.
In una metropoli sarebbe passato inosservato, mescolato a quella gran parte di umanità che sopravvive in una stazione ferroviaria, qui invece, in una cittadina di provincia, era sotto gli occhi di tutti.
Non si poteva pensare che avesse degli amici, o che neppure ne avesse mai avuti in vita sua. Ma forse non aveva neppure dei nemici.
Eppure qualcuno lo ha ucciso.
Il suo corpo era stato trovato da due agenti della polizia ferroviaria nell'atrio della toeletta, riverso a fianco di un lavandino sporco e scheggiato.
Il referto dell'autopsia era chiaro: lacerazione della base cranica prodotto da un colpo inferto con una bottiglia, e successivo strangolamento con una sciarpa.
Nessun motivo apparente, e nessuna traccia dell’omicida.
Chi poteva essere il colpevole? Qualche omosessuale respinto, la bravata di un teppista, oppure un fantasma del suo passato misterioso?
Tutte le piste battute avevano portato in un vicolo cieco e, dopo un anno, gli incartamenti del caso giacevano là, dimenticati in mezzo agli altri, tra la polvere ed il freddo di un archivio.
In quei giorni anche la stampa si era interessata alla sua morte, e il Biondo era stato dipinto come la figura patetica e al tempo stesso simbolica della nostra città operosa e tranquilla, un contrasto con il benessere, l’immagine della solitudine. E nella sua onestà morale la città non poteva tollerare la morte impunita di un vecchio mendicante a vantaggio di qualche violento o di qualche pervertito.
Ma la cronaca, si sa, vola nel vento, e anche quelle riflessioni erano finite nell'archivio di redazione.
Poi è arrivato un altro mese di maggio.
Un altro barbone. Sbocciato senza sapere come. Steso sulla stessa panca della stazione, anche lui con gli scarponi ai piedi, e una giacca di velluto a coprirgli le spalle.
La città vantava di nuovo il suo personaggio strano, un po' malinconico e un po' sgradevole, da temere e da deridere, con il suo passato misterioso, e il presente fatto di odore di sporco e di alito impastato con vino di bassa qualità.
E la città, con un sospiro di sollievo, è tornata a dormire sonni tranquilli, e le menti dei perditempo a cercare un soprannome per il nuovo venuto.
Il barista può ricominciare a dare del tu a questo cliente senza timore che si possa risentire per il tono troppo confidenziale, altri invidiarlo perché non lavora e non ha bisogni da soddisfare, i più saggi filosofeggiare sul fatto che prima o poi dobbiamo morire tutti quanti e allora fa bene quello lì a non dannarsi tanto nella vita. I più vili invece sono liberi di spaventarsi, di ingiuriarlo, certi che la colpa ricadrebbe comunque su di lui, qualunque cosa succeda.
I giornalisti invece non si sono ancora occupati di lui.
Ma non per molto.
Già domani si potranno leggere i loro commenti per il ritrovamento da parte di due agenti della polizia ferroviaria del corpo di questo barbone, senza nome e ancora senza soprannome.
Come l’anno scorso, nell'atrio della toeletta della stazione.
L'ho lasciato lì, questa notte, con la testa fracassata da una bottigliata e con una sciarpa intorno al collo, riverso tra i cocci di vetro, a fianco del solito lavandino, sporco e scheggiato, che in tutto questo tempo nessuno si è preso la briga di cambiare.
Lo sanno tutti che lavorare di notte in stazione è noioso e deprimente, le ore non passano mai, e ci si avvilisce con le solite discussioni di sport, donne e soldi che non bastano per campare.
Mai un’emozione.
In più le chiacchiere di baristi, benpensanti, filosofi, vigliacchi e giornalisti mi hanno stancato, e spero, prima o poi, di riuscire a farli tacere.
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