Ad una stagista perugina
Lucia si affrettò verso l’entrata della Metro, cercando di farsi largo in mezzo ad una marea umana variopinta e accaldata. Passò velocemente l’abbonamento nella macchinetta. Le porte di metallo si aprirono come per incanto e lei si diresse meccanicamente verso il binario, in attesa del treno.
Di fronte, sul lato opposto, una giovane suora pallida se ne stava immobile con lo sguardo perso sulle rotaie, compostamente assorta in chissà quali mistici pensieri.
Ad un tratto, comparve barcollando un vecchio clochard con una borsa di plastica piena di stracci. L’uomo farfugliò qualcosa all’indirizzo di un immaginario interlocutore e, infine, si accucciò per terra, con la testa fra le mani e il suo mucchio di stracci poco lontano.
Lucia si accarezzò i lunghi capelli lisci che le ricadevano sulle spalle e che la facevano assomigliare a una madonna rinascimentale o, a scelta, ad una Maddalena subito dopo la redenzione.
L’espressione affranta dei suoi grandi occhi scuri richiamò per un attimo l’attenzione di un giovane con il cappellino da teppista della banlieue calato sulla fronte. Il ragazzo le gridò qualcosa e si allontanò ridendo sguaiatamente, mentre un anziano viaggiatore, sudato nel suo completo grigio, la urtava con la ventiquattrore, facendole cadere l’impermeabile che teneva sul braccio.
“Ma che avrà da fissare quella pazza? Ehi tu, vai a farti fottere! E lei, perché non fa attenzione a come si muove con quella stupida borsa? Beh, che cosa c’è da guardare? Si vede che mi girano, eh?
Devo averlo scritto in faccia che sono stata piantata da poco. E dire che stavolta ero proprio convinta di avere incontrato uno diverso dagli altri! Era gentile, mi teneva per mano a passeggio lungo la Senna, divideva la birra insieme a me sul Pont des Arts e mi portava a cena dal giapponese. E poi mi parlava di cinema, di arte, di letteratura … Vatti a fidare di questi francesi, delle loro moine, dei loro sguardi da triglia e, soprattutto, delle loro frasi cinguettanti. Un vero tripudio di labiali, nasali, gutturali. O meglio, una sinfonia architettata solo per fregarti. Almeno gli italiani ce l’hanno scritto in faccia che pensano solo a quello. I francesi, invece, no.
Però devo ammettere che sono stata proprio una cretina, anche perché il copione era piuttosto banale, direi addirittura scontato: lo noto subito, davanti all’ambasciata, tutto tirato in cravatta e abito scuro da chauffeur di lusso, mentre aspetta un cliente importante. Lui mi sorride educatamente, lanciandomi uno sguardo quasi timido. Mi saluta in italiano, mi racconta che è stato tre mesi a Roma e via di seguito con la solita manfrina. Epilogo: ci scambiamo i numeri dei cellulari. Così una di queste sere beviamo qualcosa insieme... Dopo tre minuti esatti mi giunge un SMS. Uno di quelli che ti farebbero sbracare dalle risate se lo mandassero a un'amica. Invece, quando compare sul tuo telefono, ti sdilinquisci in modo inverecondo e mandi a frasi friggere circa un secolo di lotte per l’emancipazione femminile.
Ora, se io fossi stata una ragazza furba, che cosa avrei pensato? Che il giovane discreto con gli occhi verdi e la Mercedes di servizio sotto il culo era niente meno che il principe azzurro in persona, capitato per caso in rue de Varenne, alle cinque di pomeriggio, giusto per rimorchiare la prima stagista italiana che esce in quel preciso istante da quel portone fatale?
Già, ma io non sono mai stata una ragazza furba. È evidente”.
Finalmente il treno sbucò sferragliando dalla curva buia. Come si aprirono le porte, la solita fiumana in uscita si riversò addosso a quella in salita. Lucia riuscì a conquistare uno strapuntino in una carrozza di coda, accanto ad una signora grassa che, oltre a straripare dal sedile, ansimava in modo penoso, socchiudendo ritmicamente le palpebre tentate dal sonno.
Mentre il treno ripartiva sussultando, Lucia notò con la coda dell’occhio una ragazza elegante che accarezzava con tenerezza la testolina lucida di un gatto nero, che sbucava da un trasportino appoggiato sul sedile accanto. Ogni tanto lei gli sussurrava qualche parolina rassicurante e l’animale si guardava intorno curioso ma circospetto.
Una voce metallica annunciò la stazione successiva: “Hotel de Ville!” Una ragazza magrissima, che fino a tre secondi prima appariva in trance, totalmente immersa nella lettura di un libro, si scosse repentinamente, catapultandosi fuori. Fu immediatamente inghiottita dalla corrente dei viaggiatori. La signora grassa sbuffò e si rimise a dormire.
"Mi sono sempre piaciuti i gatti neri. Quello poi assomiglia tanto al mio Fumino … Chissà se sente la mia mancanza?! Immagino come lo vizieranno mamma e papà, ora che io sono lontana.
Se sapessero come mi sono fatta prendere in giro da Benoit … È meglio che non lo sappiano.
E dire che mamma me ne ha fatte di prediche, prima di partire. E papà non la smetteva più di ricordarmi che, se avessi cambiato idea, anche all'ultimo momento, un posto in banca lui me lo avrebbe potuto ancora trovare.
Oddio, ora questa qui si mette anche a russare. Come se non bastasse questo tanfo insopportabile di carne umana e di disinfettante da latrina. Uffa, ancora nove fermate. Un' eternità… ”
Lucia accavallò le gambe, inciampando nel trolley di un turista intento a consultare la cartina della Metro. Un bambino odioso incominciò a strillare contro la mamma che gli aveva strappato di mano il superliquidator, con il quale aveva già provveduto a inondare la sgargiante tunica di una matronale signora di colore, che, peraltro, continuava a oscillare imperturbabile, appesa ad una maniglia.
Lucia fissò lo sguardo fuori dal finestrino, assaporando l’odore acre del sottosuolo, mentre le pareti umide e scure della Metro scorrevano monotone, alternandosi a facce stralunate che gesticolavano da giganteschi manifesti pubblicitari.
“Provati a bagnare me e due ceffoni non te li toglie nessuno!
Vedi, Benoit, io non ce l’ho con te perché mi hai mollato. Quello che mi ha ferito è stato il modo in cui lo hai fatto. Un modo… squallido. Sì, squallido è proprio il termine giusto!
Io capisco che uno possa stancarsi e che abbia voglia di farla finita. D’accordo. Ma perché raccontarmi un mucchio di bugie? Perché fissare tutti quegli appuntamenti per poi disdirli all’ultimo minuto con scuse puerili o addirittura idiote?
Scusa, Benoit, che male c’era a dirmelo subito che volevi soltanto divertirti? Magari poteva andare bene anche a me, non ti pare? Mia nonna diceva sempre: “Dove c’è gusto, non c' è perdenza”. Invece, hai finto di metterci di mezzo i sentimenti. E questo non te l’ ho potuto perdonare! Quando mi tornano in mente tutti quei complimenti sussurrati a mezza voce: “Ma belle italienne, ecc. ecc. ecc.” mi viene una rabbia che non puoi immaginare. Nemmeno nei film con Hugh Grant! Ma come ho fatto a crederci? E le cene nel Marais da quei tuoi amici gay? E i pomeriggi a sfogliare i libri di architettura al Boubourg? E che dire di tutte quelle camminate sotto la pioggia lungo rue Rivoli, mentre mi sussurravi tutte quelle frottole con una voce più sensuale di quella di Alberto Lupo, quando duettava con Mina: “Parole, parole, parole, soltanto parole …”
Però, devo ammettere che in quel mese in cui ci siamo frequentati, ho imparato più francese che in un anno di “Alliance”… Sul piano culturale, mi hai dato un bel contributo. Su quello della galanteria, sei decisamente senza rivali. Su quello della tenerezza sei addirittura imbattibile!
Su un altro piano, invece, devo confessarti che mi hai sempre suscitato qualche perplessità.
Specialmente dopo quella sera in cui ti sei presentato con quei boxer con gli orsetti su sfondo arancione. Ti giuro che io uno con delle mutande simili non l’avevo mai frequentato!
Diciamocelo pure: l’abbigliamento è stato il meno. È stato tutto il resto ad essere deludente...
Ma, d’altra parte, io sono un tipo che bada ai sentimenti. E tu l’avevi capito subito, non è vero? E te ne sei approfittato. Specialmente quando mi incantavi con gli scrittori emergenti del sud est asiatico o con i giovani cineasti del Maghreb.
Allora il gesticolare sinuoso delle tue mani mi faceva dimenticare anche gli orsetti su sfondo arancione.
D’altra parte, i bagliori sensuali dei tuoi magnetici occhi verdi compensavano ampiamente la tua eccessiva propensione ad addormentarti ogni volta che ti invitavo nella mia caotica stanza di Pigalle, al quinto piano, senza ascensore.
Ti giuro che ti avrei perdonato anche questo, se soltanto tu non mi avessi illusa in maniera così proditoria!
Lo sai che per cucinarti le cotolette alla milanese, ho unto tutte le piastrelle della cucina? Ti ho aspettato fino a mezzanotte e un quarto. Ma tu non sei venuto. E non hai avuto nemmeno il buon gusto di avvertirmi.
Il giorno dopo, il mio coinquilino Nicola, che oltre ad essere schizzinoso è anche vegetariano, mi ha guardato con disgusto e non mi ha parlato più per una settimana. Non so se a causa della cucina profanata o delle cotolette!
Ancora due fermate e sono arrivata. Stasera sono proprio distrutta. E, oltre ad avere il cuore infranto, mi fanno male anche i piedi.”
Il treno si fermò sussultando. La porta si aprì e Lucia si catapultò fuori respirando l’aria umida e ferrosa del binario.
Mentre percorreva il lungo cunicolo che portava all’uscita, il ticchettio dei suoi tacchi si confondeva sinistramente con la musica di un sax che si perdeva, languido e insistente, nei labirinti del sottosuolo.
Fu mentre si affrettava a superare un giovane nero, con i muscoli lucidi da dio greco e un vistoso orecchino d’oro, che il suo sguardo si posò sulla pubblicità di una nota catena di ristoranti.
Nel cartellone gigantesco, una giovane donna con le labbra voluttuosamente spalancate, assaporava delle cozze dall’aspetto decisamente invitante. Sullo sfondo una scritta ambigua e ammiccante: Quand Rose mange ses moules alla plancha, elle divient complétement léon.
“Ecco, anch’io ho fatto come Rose. Un’altra volta impari ad invitarmi a pranzo, a illudermi e poi a liquidarmi in quel modo… E bravo, Benoit! Avresti dovuto saperlo che le moules fanno quell’effetto. E non solo su Rose!
Erano eccellenti le cozze marinate, con quel sughetto che sapeva di curry e di non so quali altre spezie. Sarà stato per quel sapore piccante… O forse per la delusione che mi bruciava dentro?
Il fatto sta che, quando siamo usciti dalla brasserie e ci siamo avviati sulla tua lucente Mercedes di servizio verso il bois de Boulogne, la fiamma di calore mi era salita dallo stomaco fino al cervello. Dopo un quarto d’ora ti sei fermato e siamo scesi, inoltrandoci nel bosco, senza scambiarci una parola. Ad essere sinceri, quel tuo sorrisetto ipocrita da manichino senz’anima, era più eloquente di qualsiasi spiegazione. E io non avevo più voglia né di ascoltarti, né di guardarti in faccia mentre mi prendevi in giro così impunemente.
Così, mentre eri intento a interpretare l’ultima scena (sai, quella della romantica passeggiata d’addio?) ho pensato che mi ero stancata di recitare con te quella specie di parodia di “Casablanca”. D’altronde tu non avevi certamente la stoffa di Humprey Bogart. E nemmeno il suo fascinoso impermeabile! Così, giunti sulla riva di un ameno laghetto, la mia proverbiale passionalità italica è esplosa in tutta la sua viscerale violenza. Mi dispiace Benoit ma come potevo immaginare che tu, così atletico, non sapessi nuotare?
Quando ti ho spinto nelle acque stagnanti del laghetto e sei scomparso nella melma, chissà se hai continuato a sorridere?! Peccato che ci fossero tutti quegli insetti che pizzicavano l’acqua verdognola e maleodorante! Poi ho attraversato in fretta la strada. Giusto per prendere al volo il 244. Mi sono girata solo un attimo. Il tempo di scorgere tutti quei corvi che disegnavano un cerchio scuro nel cielo sopra lo stagno…”
Lucia accelerò il passo e incominciò a salire le scale.
Quando sbucò dalla Metro era già notte. Il cielo, striato da qualche nube allungata, si era tinto del colore del lapislazzulo. A sinistra, il nastro brulicante di auto della Peripherique si snodava in mezzo a una miriade di luci. Accanto alla pensilina dei bus un enorme cartellone luminoso pubblicizzava il Festival Paris cinema 2008.
Lucia alzò i suoi grandi occhi scuri verso il grattacielo dell’Hotel Concorde – Lafayette che si stagliava nell’oscurità, con decine di finestre illuminate simili alle celle di un immenso alveare.
Laggiù, oltre le finestre dei palazzi protetti da eleganti inferriate, la punta della Tour Eiffel si accese all’improvviso. Lucia fece cenno all’autista e salì mostrando l’abbonamento. Poco dopo il bus fu inghiottito dall’oscurità brulicante di luci di Porte Maillot.
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