Un telefilm è, per definizione, un prodotto di "fiction", ossia di finzione, e perciò l’aderenza alla realtà non può essere un parametro per valutarne la qualità.
Basti pensare a Colombo, che è quanto di più lontano ci possa essere dal realismo, ed è una delle produzioni più intelligenti e creative della storia della televisione.
Esiste però tutto un filone produttivo che ha fatto del realismo il suo filo conduttore, e che ha le sue origini molto indietro nel tempo. Parliamo di Dragnet, che a buon diritto può essere considerato il capostipite del police drama, ed è indubbiamente uno dei programmi più famosi della storia televisiva americana.
Nato nel 1949 come serial radiofonico, passò sugli schermi della NBC a partire dal 16 dicembre 1951, e ci rimase fino al 23 agosto 1959 per 276 episodi da trenta minuti ciascuno.
Padre fondatore del telefilm, nonchè regista, produttore e principale interprete, è Jack Webb, che nella serie veste i panni dell’integerrimo sergente Joe Friday della polizia di Los Angeles.
Le storie raccontate sono tratte da vicende realmente accadute, elaborate in base a lunghe ricerche negli archivi di polizia di Los Angeles, e narrate con rigore quasi documentaristico, spesso dalla voce fuori campo di Friday: il lavoro investigativo dei protagonisti è descritto con uno stile narrativo essenziale e senza perdersi in scene sentimentali o spettacolari.
Si tratta perlopiù di crimini legati alla vita di tutti i giorni, dal piccolo furto al traffico di droga, non senza qualche caso di omicidio.
Dragnet ha fatto del realismo il suo cavallo di battaglia: all’inizio di ogni episodio, sullo sfondo musicale del celebre motivo musicale di Walter Schumann, la voce fuori campo di Friday ci avverte: The story you are about to see is true. Only the names have been changed to protect the innocent (La storia che state per vedere é realmente accaduta: solo i nomi sono stati cambiati, per proteggere gli innocenti).
All’epoca la serie aveva un ruolo fortemente formativo, mettendo in luce positiva il lavoro della polizia, denunciando i problemi della società contemporanea, sottolineando la gravità di qualunque comportamento criminale e invitando i cittadini a comportamenti corretti e onesti. Un compito che a Jack Webb stava molto a cuore. Ci racconta Jeff Rovin, nel suo libro The Great Television Series (1977, ed. Barnes), che Jack Webb "faceva grandi sforzi per rispondere a ciascuna delle quattrocento lettere che passavano sulla sua scrivania ogni settimana. E se dieci spettatori si lamentavano per alcuni aspetti del programma, Webb era disposto a mettere in pratica il cambiamento che loro suggerivano. Secondo i suoi calcoli, ciascuna lettera rappresentava le idee di un migliaio di spettatori".
Tutto questo non ha niente a che vedere con la serie a colori del 1967, quando la serie rientrò in produzione per tre anni, con un Jack Webb che faceva la parodia di se stesso ed esasperava i toni moraleggianti che caratterizzavano la serie classica.
Purtroppo la serie - come tante altre di quel periodo - è rimasta inedita in Italia, e così se negli Stati Uniti tutti ricordano il sergente Friday e il suo tormentone Just the facts, ma’am (Soltanto i fatti, signora), Dragnet non fa parte del patrimonio culturale della maggioranza del pubblico italiano. Per infelice ironia della sorte, è invece approdata sui nostri schermi la serie a colori: così, chi per sbaglio ne avesse visto qualche episodio, si sarà fatto di Dragnet un’idea ben poco favorevole.
Naturalmente il discorso sul realismo nelle produzioni degli anni cinquanta e sessanta non si esaurisce con Dragnet. Non possiamo fare a meno di citare, tanto per dirne alcuni, Naked City (Città Controluce), Martin Kane, Private Eye, Dick Tracy.
Negli anni settanta, il "decennio d’oro" del telefilm giallo statunitense, il rigore realistico-documentaristico ha lasciato molto più spazio ad aspetti palesemente fictional, in favore di una rappresentazione più gustosa ma per certi versi poco realistica, per quanto vada da sé che ciascun telefilm – chi più, chi meno – ha sempre una parte di realtà nelle sue sceneggiature. Abbiamo già visto, per esempio, come Kojak si possa considerare a buon diritto un’importante tappa sul percorso del realismo nelle serie poliziesche.
La svolta storica si ha però nel decennio successivo con Hill Street Blues, come ci suggeriscono Max Allan Collins e John Javna i quali, nel loro libro The Best of Crime and Detective (1988, ed. Harmony Books), scrivono: "Se Dragnet rappresenta la nascita del genere, Hill Street Blues segna la rinascita del moderno police procedural", e aggiungono: "Abbiamo scelto di dare a Dragnet e a Hill Street Blues più spazio che ad altri shows per una ragione molto semplice: lo meritano".
Che Dragnet e Hill Street Blues siano due punti di riferimento essenziali e tra loro strettamente correlati ce lo conferma anche, con perfetta sintesi, la scrittrice Loren Estleman: "There could be no Hill Street Blues without Dragnet".
La vita di tutti i giorni di un caotico e periferico distretto di polizia di una non meglio definita metropoli americana è al centro di questo show, ideato da Steven Bochco e Michael Kozoll e trasmesso dalla NBC per 146 episodi tra il 1981 e il 1987.
Il realismo di Hill Street Blues non sta nelle storie raccontate, ma nell’assenza della netta divisione tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, nell’idea che i cattivi non sono sempre così cattivi, e i buoni non sono sempre così buoni come sembrano.
I protagonisti non sono eroi infallibili, che non sbagliano mai e sanno sempre quello che è giusto. Al contrario, sono innanzitutto uomini come tutti gli altri, con i loro problemi, i loro difetti e i loro dubbi.
Si introduce l’idea che la giustizia, e il sistema che la rappresenta, non è infallibile. Vi sono molti casi che restano insoluti, criminali che restano in libertà magari per un cavillo giudiziario, e anche innocenti che vengono condannati ingiustamente.
Insomma, un’interpretazione disillusa della realtà. Cosa c’è di più realistico di questo?
A Hill Street Blues va poi ascritta l’introduzione di altre importanti novità stilistiche.
In primo luogo la struttura degli episodi è totalmente innovativa: non ci sono uno o due protagonisti principali, bensì l’interpretazione corale di un’intera squadra.
E non c’é un solo "caso" complicato da risolvere in ciascun episodio, bensì quattro o cinque, narrati secondo una struttura modulare. In molti casi si tratta di semplice lavoro di routine, ma c’é sempre qualcosa di originale, o di strano, o di terribile, o di triste nella realtà con la quale si scontrano i protagonisti.
La mescolanza dei generi è un altro tratto distintivo di questa produzione: c’é un po’ di serial, un po’ di soap opera, un po’ di police drama, un po’ di legal drama, un po’ di romantic drama, persino un po’ di sitcom e di adventure. Si mescolano toni elevati a toni decisamente volgari, vicende banali a casi complicati, storie drammatiche a storie divertenti, poliziotti corrotti e razzisti a poliziotti integerrimi.
Ne risulta una specie di grosso affresco composto da vari quadri tra loro diversi ma tra loro strettamente connessi. Ed emerge un tono malinconico che attraversa tutti gli episodi, come del resto è evidente fin dal titolo e dal bellissimo tema musicale di Mike Post.
La serie era talmente innovativa che inizialmente passò quasi inosservata, e fu rinnovata solo grazie alla lungimiranza giovane direttore della NBC Brandon Tartikoff.
Ma il successo non tardò ad arrivare, e fu un successo in grande stile, come testimoniano i 26 Emmy Awars collezionati dalla serie nel corso delle sue sette stagioni.
In Italia invece, dove approdò con il titolo di Hill Street Giorno e Notte, la serie non ottenne mai dal grande pubblico l’attenzione che avrebbe meritata.
Hill Street ha aperto la strada a tutta una serie di produzioni "realiste" – quali Law & Order, NYPD Blue, Homicide: life on the streets, e tante altre – ciascuna delle quali ha adottato forme diverse per esplorare la realtà. Ma questa è un’altra storia...
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