François Rabelais (1494-1553) ha una particolarità davvero unica: è fra gli autori che hanno inserito più pseudobiblia in un unico libro! Un’impresa così “pantagruelica” può trovarsi (ovviamente) solo nel “Pantagruele”, del 1532.
Quest’opera affonda le proprie radici in un substrato culturale decisamente popolare. Nel 1532, infatti, viene pubblicato a Lione una raccolta anonima di storie popolari dal titolo “Grandes et inévitables chroniques de l’énorme géant Gargantua”. Si tratta di storie epiche annacquate con forti dosi di comicità, e che si rifanno a loro volta ai canoni del romanzo cavalleresco medioevale, come per esempio il ciclo di Re Artù.
Questa raccolta riscuote un grande successo popolare, e lo stesso anno Rabelais vuole ricollegarsi alle storie narrate inventando il personaggio di Pantagruele, figlio del Gargantua protagonista delle Chroniques. L’operazione riesce ed il successo è tale che l’autore nel 1534 si spinge a riscrivere la biografia di Gargantua stesso, reinterpretandola a suo modo.
Gargantua e Pantagruele sono due giganti che si aggirano per la Francia. Sono giganti buoni, questo sì, ma ne combinano di tutti i colori, e i risultati delle loro imprese sono spesso devastanti per la città che ha la sfortuna di vederli protagonisti. Con questo espediente Rabelais può catturare l’attenzione dei lettori della cultura popolare, raccontando le avventure enogastronomiche dei due giganti (da fine ’800 entra anche nella lingua italiana l’uso dell’aggettivo “pantagruelico” per indicare un lauto banchetto), ma allo stesso tempo mira a fare dei suoi personaggi vere icone del Rinascimento: due uomini giganteschi com’è gigantesco l’appetito intellettuale dell’uomo rinascimentale.
Gargantua fu istruito addirittura da un «sofista nelle lettere latine», anche se i tempi di apprendimento risultano decisamente esagerati: per imparare bene l’alfabeto impiega cinque anni e tre mesi! Poi legge il «“De modis significandi” coi commenti di Urtaborea, Facchino, Cenetroppi, Galeotto, Gianvitello, Billonio, Leccasterco e d’un branco d’altri. Questo insegnamento richiese più di diciotto anni e undici mesi.» Qui si può notare come non sia solamente il libro ad essere inventato, ma anche i commentatori!
Tutta l’opera di Rabelais è disseminata di citazioni vere e citazioni inventate. Ma il più grande assembramento di pseudobiblia lo si può trovare nel capitolo VI del libro secondo, quando Pantagruele ha finito gli studi a Orléans e decide di visitare la grande Università di Parigi.
Arrivato nella città, il gigante è affascinato dalla «libreria di San Vittore», della quale procede ad elencare più di 140 titoli. È un’esagerazione letteraria, un elenco che mette a dura prova il lettore più appassionato, ma d’altronde, com’è ben specificato nel prologo, questo è un «libro pieno di pantagruelismo», quindi tutto ciò che vi si racconta è esagerato!
I titoli dei libri di questa “libreria” sono decisamente espliciti ed alternano il latino al francese. Abbiamo così il “De modo cacandi”, il “Cacatorium medicorum” e “La Profiterolle des Indulgences”; il “De modo faciendi boudinos” e “Le Cul pelé des vefves”; come se non bastasse, l’autore, a chiosa dell’elenco, precisa come alcuni di questi titoli siano stati stampati nella «nobile città di Tubinga», vero e proprio faro della cristianità!
Dice lo storico Alessandro Barbero nel 2007: «Bisogna stare attenti, perché Rabelais è uno capace di tirar degli scherzi, da questo punto di vista. Cita libri importanti, autorità e poi ti mette anche in mezzo il libro inventato, e non sempre è facile distinguere se stia citando un libro che esiste davvero oppure inventato. È chiaro che quando fa il catalogo di una biblioteca monastica e per prendere in giro i monaci elenca libri come l’“Ars honeste petandi in societate”, oppure attribuisce ad un venerabile padre della Chiesa cone Beda un trattato sulla sublimità della trippa [“De optimate triparum”], si capisce che evidentemente sta inventando».
Non mancano titoli chilometrici come “Antipericatametanaparbeugedamphicribrationes merdicantium”: un vero scioglilingua!
Chiudiamo con un sincero e chiarificatore messaggio di Rabelais, dal suo prologo a quest’opera: «leggendo gli allegri titoli di alcuni libri di nostra invenzione come “Gargantua”, “Pantagruele”, “La dignità delle braghette”, “I piselli al lardo cum commento”, etc. credete troppo facilmente non trovarvi dentro che burle, stramberie e allegre fandonie [...] Aprire il libro dunque bisogna, e attentamente pesare ciò che vi è scritto. Allora v’accorgerete che la droga dentro contenuta è di ben altro valore che la scatola non promettesse: vale a dire che le materie per entro trattate non sono tanto da burla come il titolo dava a intendere». Quello che sembra un gioco, dunque, ne ha solo l’apparenza.
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