UNO

1970

1.1 STERLING, IL GRAN MAESTRO, CUTTIEDDU

8 DICEMBRE 1970, INIZIO

Sterling

Roma. Quel genere di brivido lo provi solo a Roma.

Via Teulada 66, aria gelida s’infila nei vestiti. La mimetica nera sotto il trench, Sterling fumava Marlboro morbide. Pensava ad Aldo Fabrizi e a quella ragazza carina che cantava Cibù Cibà.

Canzonette, risate all’ora di cena, il telegiornale. Tutto passava

di là.

Ciò che l’Italia sapeva, partiva da lì.

Il Centro produzioni televisive della Rai era una fortezza. In controluce, nella sera gelata, metteva paura.

Gigantesco, abnorme, male illuminato. Luci gialle ronzavano ai piani alti.

I programmi della sera.

Qualche tecnico che fa gli straordinari, imprese di pulizie.

Sterling fumava e immaginava. Controllò le Beretta alla cintura, diede uno sguardo agli uomini: nessuno muoveva un muscolo.

Centottantasette soldati addestrati. L’élite di Ultor pronta all’azione.

Sarebbe successo quella notte, Sterling l’aveva pianificato a lungo. Nessuna possibilità di errore, la cosa sarebbe filata liscia. Ricordava i giorni dell’addestramento, un milione di anni prima.

La lezione di Kurtz, la prima regola del soldato perfetto: mai esitare.

Sterling non aveva esitato. Aveva servito la Causa con onore e disciplina.

Il momento era giunto.

Il momento di prendersi tutto.

Il momento di fare sul serio. Sterling salì sul tetto della jeep. Guardò gli uomini in assetto da guerra.

Occhi cattivi, colpo in canna.

«Caporale?»

«Sì, signore?» Il caporale era vicino alla radio da campo. Il fruscio delle valvole era l’unico fiato nel raggio di chilometri.

«Ancora niente?»

«Ancora niente, signore.»

Sterling non stava guardando da nessuna parte. Restò così un momento, il caporale sempre sull’attenti.

Tornò al mondo reale: «Chiameranno. È questione di minuti... Tieni gli uomini in riga, caporale.»

Il caporale batté i tacchi: «Sì, signore.»

La luna era sempre più fredda.

Il Gran Maestro

Lo chiamano Gran Maestro, ma non c’è stata nessuna elezione.

Nessuna nomina ufficiale.

Nessuna cerimonia.

Chi comanda ha deciso dall’oggi al domani che la Loggia sarebbe stata cosa sua.

Piazza del Gesù non ha nemmeno commentato. Qualcuno, ai piani alti del Grande Oriente, ha provato a storcere il naso. Quel qualcuno è stato avvertito: la Mercedes e l’autista sfregiati, la sparizione di piccole cifre da conti che nessuno avrebbe dovuto conoscere, un biglietto in una cassetta di sicurezza a Zurigo, la stessa in cui si trovavano certi documenti che nessuno avrebbe voluto avere mai firmato.

Il Gran Maestro guida la Loggia, adesso.

E così sia.

Si occupa personalmente dell’iniziazione dei nuovi adepti. Militari, soprattutto, alti ranghi dell’esercito e dell’aviazione. Servitori della Causa e soldati insospettabili, il Gran Maestro non ha mai fatto molte differenze.

È nato a Grosseto nel ’19 con una gran voglia di menar le mani. Si è arruolato volontario a diciassette anni e a ventuno già serviva con gli alpini in Albania.

«La guerra non si fa con l’acciaio, ma con lo spirito», così diceva il Duce.

Il Gran Maestro preferiva il piombo alla fede.

Il suo primo cristiano l’aveva fatto fuori vicino a Tirana, una notte d’inferno: pioveva che Dio la mandava.

Due anni dopo era sottotenente delle SS. Aveva iniziato spiando i partigiani e denunciandoli ai tedeschi.

Ma era un tipo che pensava in grande, e ben presto capì che il doppio gioco era oro: comunicava ai nazisti l’ubicazione dei covi della resistenza. E poi informava i partigiani dell’imminente incursione, permettendo loro di salvare il culo.

Nessuno scrupolo: acquisire potere, contava solo questo.

Lavorò alcuni anni sotto copertura coi comunisti: così si guadagnò un salvacondotto quando le cose per i nazisti si misero al peggio. Un ufficiale rosso lo fece uscire di galera a sei ore dall’impiccagione.

L’accusa era di spionaggio.

I ragazzi di Ultor li conobbe nel ’56, appena tornato da Malindi per supervisionare un giro di pietre preziose.

Il Gran Maestro – che di grembiuli, compassi e guanti bianchi, allora, non ne sapeva nulla – fu avvicinato da Kurtz in persona. I due erano buoni soldati, s’intesero a meraviglia: fu della partita da subito, dalla firma dell’accordo Stay Behind. Servizi americani e Servizi italiani s’impegnavano per iscritto a fare comunella.

Gli yankee avrebbero fatto piovere soldi, armi, tecnologia e addestratori Usa sullo Stivale.