Ti chiedo innazitutto la genesi de “Il paese di Saimir”: com’è sorta l’idea e, tecnicamente, come l’hai sviluppata?
É nato come romanzo corale capace di osservare la realtà da più punti di vista. Cammin facendo i punti di vista sono cresciuti. Mi interessava sviluppare una storia dove un "invisibile" veniva lasciato morire sotto le macerie di un palazzo per puro calcolo d’interesse. Una metafora del mondo disumanizzato dell’economia liberista.
Cosa credi che distanzi questo romanzo da un Soneri, cosa invece lo accomuna?
Il poliziesco ti impone una serie di regole alle quali devi attenerti, mentre un romanzo come questo è molto più libero nello svolgimento. Il punto in comune è però l’impegno civile nelle tematiche che hanno sempre un’impronta etica e guardano alla realtà.
Non è la prima volta che abbandoni le vicende di Soneri, anche se momentaneamente. Penso, ad esempio, a “Le imperfezioni”, nel 2007. Quali sensazioni ha provocato questo “distacco”: ti è dispiaciuto, ti ha lasciato indifferente o ti ha ricaricato?
No, non mi è dispiaciuto lasciare Soneri perché è necessario scrivere anche dell’altro. Non voglio essere lo scrittore di un solo genere e di un solo personaggio. Anche in passato ho "tradito" il poliziesco per almeno tre volte e in tutti i casi è stato salutare!
Quanto ha inciso il tuo lavoro e la tua attenzione di giornalista nella produzione di un romanzo che affronta un problema così profondo e delicato?
Il lavoro dentro una redazione è un punto d’osservazione della realtà privilegiato perché passano tante notizie, tante storie. La cosa più importante è però saperle guardare e cogliere quegli aspetti che sono in grado di sintetizzare una vicenda più grande o un aspetto del reale.
La questione della lingua. Perché non hai scelto un italiano sporcato d’albanese per Saimir?
Ho pensato di usare una sorta di pasticcio linguistico, ma non ero molto sicuro che funzionasse. Ho preferito rendere più grossolano l’italiano anche perché gli albanesi conoscono bene la nostra lingua avendola assimilata dalla tv direttamente in patria. E poi questa è una "querelle" aperta tra realismo e finzione. Volendo estremizzare, si potrebbe anche rimproverare a Dante di non aver fatto parlare Virglio in latino.
Crolla un palazzo addosso a un lavoratore clandestino, Saimir, ma all’inizio nessuno ha la certezza che il ragazzo albanese sia stato sepolto dalle macerie. Il capomastro Inardo non riesce a dormire, la notte. É preoccupato per la vita umana, forse in pericolo o forse persa, oppure per i guai che incombono?
Soprattutto per i guai che incombono. L’esempio di questo ragazzo sepolto è quello di una vicenda molto tragica. La preoccupazione è non far scoprire il corpo sotto le macerie proprio perchè denuncerebbe l’illegalità di questo cantiere. La vicenda assume una disumanità particolare per questo motivo.
Il rapporto di Vera e con la televisione è ossessivo ma comprensibile. Lei spera di vedere, attraverso le reti televisive italiane, suo figlio Saimir. É sicura che prima o poi apparirà in qualche programma. Ma spesso si trova davanti la cosidetta TV spazzatura, perché trasmettono delle “scemenze” (p. 56 ). Vi è una critica di sottofondo?
La tv pubblica sciocchezze nel 95-96% dei casi. É poco quello che si vede di decente in televisione. Vera, ingenuamente, pensa che la televisone sia un mezzo capace di comunicare con le persone e spera, attraverso questa sorta di elettrodomestico, di vedere suo figlio che è lontano, l’ultimo figlio, quello a cui è piu affezionata. Le aspettative però vengono deluse proprio da questa alluvione di scemenze.
Ancora Vera: nella sua resa, dimostri una notevole capacità introspettiva. Perché nel lettore provoca una grande tenerezza?
Ma forse per via della com-passione (etimo latino: soffrire insieme), perchè volevo che lei riuscisse a far capire all’altro la sua difficoltà e quindi lo mettesse nella condizione di immaginarsi la situazione altrui. Forse uno degli scopi del libro è quello di far vedere il mondo dal punto di vista di quelli che stanno peggio di noi. Se ci mettessimo a guardare il mondo dalla loro angolazione, potremmo individuare le loro modalità di approccio, per capirli.
In questo romanzo non vi è la difesa ad oltranza dell’ “altro”: ciascun gruppo sociale viene rappresentato con attinenza alla realtà. Mi riferisco agli amici di Saimir.
Ho cercato di non essere retorico, i buoni non vengono identificati negli immigrati poveri e i cattivi negli italiani ricchi: è una suddivione poco credibile. Tutti sono travolti dalla follia del denaro, dall’autoaffermazione, dal riuscure a cavarsi da una situazione di miseria. Nel caso dagli amici di Saimir anche lo straniero acquisisce un vizio molto occidentale che è quello dell’egoismo ad oltranza.
Mi sembra anche che tu abbia scandagliato molto bene il luogo comune, diffuso all’estero, dell’Italia come paese della Cuccagna, e la derivante delusione...
Sì, io credo che per un albanese, che molto spesso vive in condizioni disagiate, arrivare in Italia sia come arrivare in un paese dei balocchi, immagino l’effetto straniante che ha questa ricchezza. Quindi è evidente che, agli occhi di un povero, un paese come l’Italia assomigli a un qualcosa di sognato piu che di reale, con tutte le conseguenze che ne derivano, come il fatto che questa ricchezza è solo apparentemente disponibile e, per averla, bisogna sacrificarsi.
Quali sono le fonti che hai utilizzato per documentarti sull’ Albania?
Ho letto una scrittrice albanese, Anilda Ibrahimi, che ha scritto il romanzo “Rosso come una sposa” e ha raccontato l’Albania lungo questo secolo, in chiave femminile, di generazione in generazione. Ho letto anche qualche repotage dall’Albania sulla legge del kanun, una sorta di legge d’onore che regola i rapporti tra le persone, molto simile in certi versi alla faide di alcune zone italiane. Infine, come abbiamo sopra detto, la mia attività di giornalista ha coadiuvato le fonti.
Tra Mentor, amico di Saimir e Debora, una barista sovrappeso, vi è attrazione: rappresenta l’unione degli esclusi dalla società?
Sì, ciascuno è escluso ma per diversi motivi. Debora è una ragazza che non rientra nei canoni di bellezza del mondo d’oggi: è tarchiata e grassa (in un mondo di veline non è in linea con il canone di bellezza), non ha studiato si è messa a fare la barista ma avrebbe voluto essere una velina, si trucca molto ma non è guardata dagli uomini, quindi viene esclusa per una regione estetica. Mentor probabilmente avrebbe una capacità attrativa nei confronti delle donne, però sfigura come clandestino, è albanese e questa esclusione è piu di una ragione sociale. Alla fine si incontrano con un unico obiettivo: trarre da se stessi il massimo che si può avere.
In questo romanzo hai inserito delle scene di sesso dimostrando molta duttilità: dall’immagine violenta iniziale e quella molto dolce di Altin.
Il sesso non lo uso spesso, solitamente lo lascio intendere perchè non mi interssa raccontare di sesso. In questo caso era necessario all’inizio per esporre le modalità di approccio di questo padrone senza scrupoli e violento. Dimostra una violenza che esprime non solo nei rapporti professionali ma anche nei rapporti diretti e soprattutto con le donne occasionali che incontra ed esercita il potere sottoforma di dominio sessuale con una violenza bruta. Nel caso di Altin (lui non ha mai avuto un raporto con una donna) casualmete incontra una quasi coetanea molto piu smaliziata di lui perchè è stata costretta a fare la prostitua. Benchè lei sia avvezza ad ogni tipo di rapporti con gli uomini, riesce però a conservare con lui purezza e un’ingenuità.
Bene, ora partono le ultimissime domande, quelle meno seriose, posso?
Certo che puoi!
Hai vinto il Premio Fedeli, Il premio Giallo e il Premio Mediterraneo. Come ci si sente a collezionare così tanti successi?
Non mi sento per nulla arrivato, però le soddisfazioni ci sono, sopratutto quando sai che quel premio è dato da una giuria non pilotata. Il premio Fedeli, quello Giallo e quello noir di Sassari avevano giurie molto serie, ciò significa avere avuto il gradimento di lettori qualificati
Cosa ci fai su Thriller Magazine con un moncherino di gamba in mano?
É uno scherzo che mi fece il fotografo del giornale perchè un giorno capitò questo moncherino (era un modello che usavano nelle merceria per propagandare le calze velate) e mi hanno immortalato così!
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