Dario era soddisfatto della presentazione. Molti ospiti, una libreria centralissima, un relatore impeccabile, un altro che aveva reso frizzante quell’ora di letture e promozione del suo romanzo noir, Io, il diverso. Gli acquirenti avevano battuto ogni record: 35 copie vendute, di cui una a una fascinosa pugilessa che gli aveva lasciato un bigliettino col suo numero di cellulare e il ricordo di occhiate da civetta che preannunciavano molto altro.
Dario era consapevole di piacere alle donne. Se ne accorgeva soprattutto certe mattine, quando, durante il giro di rappresentanza farmaci negli ospedali, alcune infermiere lo guardavano senza ritegno. Quelle mattine gli sembrava che se lo volessero scopare tutte. Certo, a lui piaceva sentirsi definire un bell’uomo, anche se era consapevole che le sue armi migliori erano piuttosto due fari, al posto degli occhi, tra il ghiaccio e il cobalto, un sorriso accattivante, un portamento virile e un modo di fare che non risparmiava nessuno: garbato, rispondeva ora a tono, ora educatamente, salace quando acquistava confidenza. Gli aspetti del carattere che non palesava al primo incontro, molte donne li intuivano con quella sorta di radar femminile che faceva loro presagire il nascosto. Nessuno stupore che la pugilessa gli avesse messo in mano un bigliettino e gli avesse chiuso la mano a pugno strusciandovi sopra la sua. Che peccato abbandonare la serata, la lottatrice e gli altri ascoltatori! Sarebbe stato l’humus ideale, quello, per fare notte fonda in qualche locale, del resto Dario era solito concludere le sue presentazioni con feste alcoliche.
Ma quella volta un altro impegno lo aveva costretto a salutare i presenti. Doveva incontrarsi con Carlo Minghi, il suo agente. Dario confidava molto in Carlo e sapeva che un giorno l’avrebbe aiutato a diventare uno scrittore che campa solo della sua arte. Allora avrebbe smesso di girare come un pazzo per gli ospedali per guadagnarsi la pagnotta e la sua vita sarebbe diventata solo scrittura, alcool, ammiratrici e viaggi culturali.
Uscì dalla libreria, s’incamminò a passo celere e, per arrivare prima, svoltò in una viuzza laterale. Fu in quel momento che si vide affiancare da un tizio piccolo e paffuto che gli sembrò di aver già visto. Gli trotterellava accanto, aveva una pancia sporgente sulla quale gli ultimi bottoni inferiori di una camicia stretta e lisa avevano ceduto. Ma la cosa che più saltava all’occhio era la testa: una testa lucidissima, completamente pelata, se non fosse per una specie di ciocca ondulata e confusa che gli ballonzolava tra una tempia e l’altra. Sembrava un’enorme lampadina, non si poteva scordare una testa così. Infatti a Dario venne in mente: l’aveva scorta poco prima, durante il momento del reading di Io, il diverso.
«Signov Davio Nevi! Scusi se la difstuvbo…» biascicò una voce strana.
Dario si voltò verso la testa a lampadina e si sentì ottundere le narici da una ventata di cipolla.
«Signov Davio Nevi, io sono un suo ammivatove…» proseguì galoppando per mantenere il passo con quello dello scrittore «…ho già letto il suo pvimo libvo, ova ho acfuistato qvesto e… non mi ha scfvitto la dedica…»
Dario capì che la stranezza di quella voce non era data dalla r moscia, ma dal fatto che zoppicava qualche suono consonantico. Pensò che fosse più educato fermarsi: «Non c’è problema, gliela posso fare subito!»
Prese il libro e vi scrisse frettolosamente sopra. Lo richiuse e salutò con un sorriso.
«Aspetti! Anzi… mi chiedevo, puossiamo davci del tu?» chiese l’ometto.
Dario si sentì di nuovo investito da una ventata acidula, ma non era solo l’odore di cipolla di prima. Era mescolato con odore di pesce stantio e con tanfo di cibo digerito. Chiuse gli occhi un secondo per lo stordimento. Poi li riaprì: «Certo…»
«Piaceve, io sono Bavtolomeo Ghini» e allungò una mano flaccida facendo brillare due occhietti vispi «Ma sai, Davio… Davio, vevo, posso chiamavti pev nome? »
«Certamente» confermò lo scrittore cercando di inspirare solo con la bocca per non sentire più quel puzzo nauseabondo.
«Bene, Davio, sai, anch’io sono uno scvittore di gialli, pfopfio come te… Beh, io in vevità ho pubblicato a pagamento…»
«Mi congratulo» disse Dario, sforzandosi d’accennare un sorriso. Qualsiasi persona che lavori nel settore sa che nel 99% dei casi le pubblicazioni a pagamento sono dei bluff. Ma ormai la frittata era fatta, pensò Dario, sarebbe stato inutile e crudele farglielo notare. Gli venne in mente una satira del poeta latino Orazio, in cui si raccontava come, per strada, venisse perseguitato da un seccatore che aveva velleità poetiche e che sperava di trovare in lui un aggancio per raggiungere il protettore di tutti gli artisti, Mecenate: Ibam forte via Sacra, così cominciava la satira. Come se l’era scampata Orazio in quel frangente?
Il signor Bartolomeo si piegò verso una ventiquattrore, ne estrasse un libro e lo porse a Dario con entusiasmo:
«Si intitola Tvedici, pevché vengono compiuti tvedici delitti…»
«Originale» disse tra i denti l’altro.
«Sì, gvazie!» continuò il signor Bartolomeo tutto eccitato «Pensi, in tvedici notti! »
«Un’idea geniale…» assentì lo scrittore. Ma il suo interlocutore lo prese sul serio: «Leggi l’inizio, pev favuove…»
Il problema di Dario era che non sapeva dire di no. Al lavoro, agli amici, alle donne. Certo, quelle gli dovevano piacere. Ma, chissà perché, era quasi sempre circondato da code di belle donne. Anche alla pugilessa, lo sapeva, avrebbe ceduto se quell’impegno non lo avesse distolto. Aprì il libro e lesse l’incipit:
Tredici delitti sono stati fatti in tredici notti. Io ora mi chiedo: perché l’uomo uccide e non fa niente per contenere codesta matta bestialità?A uno scrittore come Dario già una frase così sarebbe bastata per capire che non valeva la pena leggere neanche una riga in più. Codesta matta bestialità era un trittico irritante come sentir delle unghie grattare una lavagna. Uno che comincia così un romanzo, non sarà mai uno scrittore, considerò.
Fece finta di proseguire la lettura e pensò a Carlo, l’agente-amico che l’aspettava tra pochi minuti davanti al Polices, il bar-ritrovo dei giallisti. Era sicuro che Carlo gli avrebbe fatto prima o poi stipulare il contratto giusto, con una casa editrice da urlo. Avrebbe dovuto scolarsi almeno due negroni per raccontargli di quel bizzarro incontro e riderne scrollandosi di dosso il senso di disagio che gli provocava il Signor Testa-a-lampadina.
«Davio, hai voglia di bevci qualcosa insieme?»
Lo scrittore fu colto di sorpresa, ma non abbastanza da non avere la prontezza di spiattellargli, come scusa, l’impegno con il suo agente. Stava giusto per farlo quando squillò il telefono. Era appunto Carlo, che gli annunciava ritardo.
«Allova?» insistette l’altro, con un sorriso invitante che andava da orecchio a orecchio.
Dario non aveva idea di come fosse finito in quel locale. Colpa della gola secca, colpa della gentilezza. Ordinò un negroni. Il barista si rivolse al suo accompagnatore: «Anche per lei?».
«Oh, no! Io pvendo una Spvite!» rispose Bartolomeo ridendo e arricciandosi intorno all’indice il ciuffetto di capelli. Dario si accorse che non riusciva a fissarlo, ogni volta che ci provava dopo dieci secondi doveva distogliere lo sguardo. C’era qualcosa, in lui, oltre all’aspetto, oltre ai miasmi di alitosi, che lo imbarazzava e lo spaventava. Dario pensò che in quell’elemento dovevano essere concentrati almeno duecento anni di casi psichiatrici. Sfogliò il suo libro e quello che lesse qua e là glielo confermò. Le tredici vittime erano tutti bambini. Si raccontava, nel modo più sgrammaticato e sconclusionato, il modus operandi di un omicida gay di minorenni in cui si accalcavano le perversioni più bieche: necrofilia, avarizia, cannibalismo dei genitali. Dario rabbrividì. Gli si parò davanti agli occhi l’ombra dell’Orco, il serial killer che da qualche mese terrorizzava i genitori della regione. Un pedofilo che agganciava i ragazzini fuori da scuola allettandoli con un videogioco installato nel portatile, li caricava in macchina, li portava chissà dove e abusava di loro per poi scaricarli, strangolati, di fianco ai cassonetti della pattumiera. Avrebbe potuto davvero essere lui? Dario accantonò il ribrezzo perché era insorto un altro problema: il libro che stava sfogliando era scritto con una sintassi immonda. Nessuno aveva corretto i refusi. Per non contare le sferzate morali e religiose disseminate tra le pagine, della serie: queste cose muoio dalla voglia di farle, e forse le faccio, ma in pubblico le condanno fermamente.
Alla cassa, Testa-a-lampadina rallentò i movimenti, così che il giallista pagò anche per lui, ma lo fece volentieri pur di togliersi presto di dosso quella sgradevole sensazione.
«Ora devo andare, il mio agente mi aspetta tra cinque minuti alla fine della via. Deve dirmi una cosa importante, non posso tardare. »
Bartolomeo con beatitudine rispose: «Non c’è pvoblema, ti accompagno alla fine della stvada!»
Cazzo, stracazzo, pensava Dario, mentre rigettava dalle narici la folata di cozze andate a male che gli aveva urtato l’olfatto. Si era dimenticato per un attimo di inspirare dalla bocca. E poi la via era lunghissima, ancora mezzo chilometro con lui, non ce la poteva fare. Perfino le ragazze non lo guardavano, ora che si portava dietro quel sacco di patate. Gli tornò in mente Orazio. Aveva velocizzato il passo, ecco cos’aveva fatto quando un seccatore l’aveva importunato lungo la via Sacra.
Cominciò a camminare più spedito. Ma l’impiastro gli stava alle calcagna, pareva rimbalzare contro il cemento e saltare come una palla, una goccia di sudore gli scendeva lungo la fronte, il ciuffo andava a ritmo, ora a destra, ora a sinistra.
«Senti, Davio, io volevo chiedevti, sai, il mese pvossimo faccio una pvesentazione alla libveria Chavta, pensa, pvopvio il tvedici del mese! Tvedici come il titolo del libvo, ihihi!»
Dario non riuscì neanche a sorridere. Bartolomeo continuò, accostandosi al suo orecchio come se volesse fargli una grande rivelazione: «Vedi? Il tvedici è il mio numevo fovtunato, ihihiii!» E giù di nuovo a ridere come un isterico. «Beh, Davio, io volevo chiedevti se mi pvesenti tu. Ecco, sì, vuoi favmi da velatove?»
Il giallista immaginò l’orrore: lui, magari di fianco a un pericoloso killer, a presentare, inchiodato a una sedia, in un nugolo di olezzi digestivi con sfumature di pescheria e minestra di verdure, il libro più brutto che gli fosse mai passato tra le mani. Dove avrebbe trovato il coraggio per ingannare gli ascoltatori e parlarne bene? Stette in silenzio per qualche secondo dimenticandosi nuovamente di respirare con la bocca e pagandone le conseguenze. Senza scuse non avrebbe mai saputo rispondere con un no secco. Poi la salvezza gli venne a tiro, la verità gli fu alleata, fece un sospirone di sollievo ed esclamò: «Peccato, il tredici del mese prossimo ho un impegno importante, sto andando proprio ora a parlarne col mio agente!»
Lupus in fabula, sbucò tra i passanti una figura alta, capelli brizzolati: Carlo Minghi, l’agente tanto agognato. Dario era così felice che si riprese. Perfino li presentò e di nuovo sottolineò, mentre Carlo tentava di stringere la mano di burro dell’altro: «Ciao Carlo! Lui è Bartolomeo. Vedi, Bartolomeo, è con lui che sono già prenotato il tredici del mese prossimo, quindi, spiacente, ma non posso venire alla tua presentazione.»
Carlo, che era un curioso per natura, chiese di cosa si trattasse e Bartolomeo gli porse compiaciuto il suo libro. L’agente lo accostò agli occhi per guardare la copertina, sfogliò e lesse a pizzichi, poi richiuse sorridendo: «Ma pensa te!»
Dario conosceva la sua indole goliardica e si aspettava che esplodesse con una battuta. Carlo ripetè: «Ma guarda un po’! Tredici! »
Sventolò il libro all’aria come fosse un ventaglio: «Ma pensa!» ripetè Carlo «Dario, era proprio di questo che volevo parlarti! Il tredici ci sarà la presentazione di questo libro e l’editore, che è un mio caro amico, mi ha chiesto se conoscevo uno scrittore in gamba per fargli da relatore. Io ho subito pensato a te! Sai, è un aggancio importante l’editore, è socio maggioritario anche in una grandissima casa editrice nazionale a cui voglio proporre il tuo prossimo romanzo. È vitale non dire di no.»
Dario cessò di respirare con la bocca. Non si voltò nonostante sentisse ripetere, tra un ghigno e l’altro: «Visto? Ehhehe, te l’avevo detto, eheh! Il tvedici è il mio numevo fovtunato!»
Dario sforzò un sorrisetto a labbra serrate e si limitò ad assentire con la testa mentre, di fianco a lui, poco più in basso, gli sembrò che la lampadina gigante si fosse tutta illuminata a elettricità.
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