“Una piccola Chicago”, diceva Billy Barone, gangster italoamericano, venuto a conquistare Milano dopo aver fatto piazza pulita delle feroci ma scalcagnate bande del calabrese Antonio Sabàto e del Capitan Philippe Leroy. Erano i primi anni 70 e forse più di ogni altro Milano Rovente di Umberto Lenzi fotografava i mutamenti nel territorio criminale del capoluogo lombardo.
Senza dimenticare che al cinema si va per intrattenersi con una storia entusiasmante e non a vedere un documentario.
Ho voluto ricordare Milano Rovente perché è un film che, anche a distanza di anni, funziona. Pur con i suoi clichè, le sue esagerazioni e quel tanto di pressappochismo imposto da mezzi non esattamente faraonici, resta una delle radici del nero d’azione tipicamente nostrano che oggi pochissimi autori hanno il coraggio di scrivere ancor editori meno di pubblicare.
Chiariamo prima di tutto che gli occhi con cui vedo Milano sono quelli interessati e curiosi del narratore e quelli preoccupati del cittadino.
Non sono un giornalista, scrivo storie inventate. Mi documento, giro, guardo cerco di vedere le persone e le zone dove si svolge un’azione ma non è mia intenzione ricostruire la realtà o sparare giudizi. Come diceva LeBreton nel Clan dei Siciliani, “raccontare le storie criminali non significa approvarne le azioni”.
Il narratore- regista o scrittore- è fatto così.
Cantastorie.
È un mondo parallelo, verosimile perché molte delle storie che scrivo hanno agganci reali ma rivendico il diritto di creare sulla pagina il mio mondo.
Con questo sguardo osservò la mia città e ve la ripropongo per iniziare il viaggio nel cinema d’azione più autenticamente nostrano.
Forse Billy Barone, nel film sopraccitato, non aveva una visione chiara di Milano. Come avrebbe potuto, venendo dall’America…. Ne coglieva alcuni spunti perché l’uomo, l’uomo criminale in primis, è un po’ lo stesso dovunque. Ma le metropoli….è un altro discorso. Milano, New York, Hong Kong, Istanbul, Mosca… città pericolose ma nessuna è esattamente uguale all’altra.
Di questi pomeriggi nebbiosi non è difficile vedere la Milano nera, sui viali lucidi di umidità che non riesce a essere neppure pioggia, con le insegne che si sfaldano, personaggi che girano furtivi. Milano città industriale, meta di chi cerca fortuna, in qualsiasi modo. Emigranti, clandestini. Ma, nel trascorrere del tempo, la Milano da bere, delle modelle, dei delitti Jucker e D’Alessio, dei paninari di Piazza San Babila, dei ladri di via Osoppo che portarono a compimento la rapina perfetta senza versare sangue, si è trasformata senza mai perdere completamente il contatto con la sua vicenda criminale.
Differenti sfaccettature di una città che ha due milioni e mezzo di persone, quindi non è una megalopoli ma neanche un terreno facile da controllare.
Neppure nel quartiere tutti sanno tutto di tutti.
E quando succede la tragedia- s’accoltellano i vicini o si suicida il ragazzino depresso- la risposta, qui come altrove è sempre la stessa.
“Mi sembrava gente così a posto… persone normali…”
Normali. Che vuol dire? È solo un modo di definire chi non si scosta dal fiume di gente che entra ed esce dai negozi, dai supermercati, dai centri di telefonia che, esteriormente, s’adatta per non dare nell’occhio. Ma a chi frega qualcosa di chi ti passa accanto?
Nessuno alla fine può dire di più, perché tutti restano chiusi nelle loro vite.
Anni fa su viale Monza saltò una caldaia e venne giù un palazzone. Sembrava Beirut. Dopo due giorni la gente non ne parlava più. Eppure io ci passavo di fronte in auto tutti i giorni per andare in palestra e di quell’edificio sventrato vedevo le tracce.
La voragine spalancata sulla strada. La gente, però, continuava a fare la spesa.
Un Prefetto ha individuato un punto fondamentale della geografica fisica, ma anche criminale di Milano.
C’è un centro piccolo e un’enorme periferia che, con i decenni si è saldata attraverso case popolari, zone residenziali, aree industriali che poi sono state abbandonate.
Per cogliere le potenzialità -qui torna lo scrittore, non il sociologo o il giornalista - di Milano come ambientazione di storie d’azione è alla territorialità che bisogna far riferimento. Ogni società, e quelle criminali non fanno eccezione, si sviluppa intorno a un nucleo ambientale. Bar, negozi, zone di appartamenti.
Certo, nelle vie del centro con gli affitti miliardari, i residence delle modelle, le discoteche di lusso si sviluppa una cultura che ha una sua faccia nera così come nei rioni popolari intorno ai Navigli -dove un tempo abitavano i milanesi DOC- c’era la mala delle canzoni.
Ma La banda dell’ortica e i bei lader di certe tradizioni cabarettistiche sono cose del passato. In parte sopravvivono perché, alla fine, nulla si cancella nel calderone della città. Come le vecchie battone di via Rovello che, quasi inspiegabilmente, riescono ancora a trovare i loro clienti. Ma dalla banda Cavallero, al mostro della Barona, alle imprese del bel Renè- Vallanzasca- il panorama è cambiato così come sono mutati certi quartieri.
Verso Sesto dove un tempo c’erano le industrie Falk sono rimasti casermoni in parte reinventati come centri commerciali, in parte rimasti così senza controllo.
E poi a Milano è passato -e passa ancora- gran parte del subbuglio politico del paese. Le battaglie dei centri sociali, la bomba di piazza Fontana, il rapimento di Abu Omar. Non sono episodi staccati e slegati, lontani nel tempo. Sono parte della storia della città, come la rapina al furgone blindato di via Imbonati a due passi da casa mia. Una battaglia con mitra da guerra, bazooka e un coinvolgimento di una banda di quasi trenta persone che alla fine - si scoprì – eseguiva colpi in tutta la regione. Sovvenzionati da chi? Istigati da chi?
Per quale progetto?
Perché, quando c’è di fronte un tale dispiegamento di mezzi e il fuoco delle notizie si spegne velocemente, c’è sempre un progetto.
Non è dietrologia da romanzaccio. È Storia.
Non li leggete i giornali? Quelli di oggi ci svelano complotti che ieri tutti davano per impossibili. Eppure…
No, dice qualcuno, certe cose succedono nei film americani, non da noi.
L’Italia si anima, parla per l’omicidio della ragazzina, per la strage del disoccupato che ammazza madre e padre a randellate, per la bimba lasciata nel cassonetto.
Ma c’è anche una criminalità più organizzata, violenta che fa rapide comparse sulle pagine dei giornali ma poi sparisce dalle cronache. Perché sembra che il cittadino comune- che è orripilato dal fatto di sangue tra gente comune- della criminalità organizzata, dello scontro duro, non voglia sentir parlare.
Son cose che succedono all’estero o, peggio, giù, al Sud. Come se l’Italia fosse ancora divisa in su e giù.
Oggi ci sono gruppi extracomunitari, slavi, arabi, africani, orientali. Ognuno ha la sua zona i suoi affari segreti, le sue vendette, le sue leggi. Alcuni interagiscono, altri hanno legami con il terrorismo. Tutti devono fare i conti con le strutture criminali preesistenti.
Anni fa, sempre vicino a casa mia, si svolse una furibonda battaglia tra trans italiani (poveracci attirati da quella che sembrava una moda redditizia, ma assolutamente impreparati a una realtà che nei paesi d’origine aveva ben altre storie) e “colleghi” sudamericani, decisamente più determinati e violenti. Professionisti, in fondo, venuti a colonizzare un territorio e consapevoli della necessità che ogni colonizzazione impone: spazzar via la concorrenza.
Sprangate, catenate in faccia, acido. Tutto nei giardinetti dietro una nota scuola elementare. Qualcuno ricorda di aver letto per più di due giorni la cronaca sui giornali?
Fa più scandalo il VIP beccato in crisi da metanfetamine in casa del travestito che, magari, si vende l’intervista al settimanale scandalistico.
Perché c’è una cultura dello spettacolo anche nell’informazione.
I poveracci possono anche sbudellarsi ma fanno poca notizia. La gente – sì, quella che vedete frettolosa alla mattina accalcarsi nei bar infila per il cappuccino e brioche, le donne, dalla ragazzina alla signora, che corrono da casa in ufficio con il cellulare incollato all’orecchio come se, dopo l’ingresso nel luogo di lavoro fosse loro negata ogni comunicazione con amanti o amiche che siano- non guarda, non vuole vedere. Preferisce spettegolare su Vallettopoli ma non si chiede dove finiscono i soldi riciclati nell’acquisto di macchinette mangiasoldi da una non ben identificata società finanziaria.
Più facile sparlare della valletta siliconata che comunque, essendo maggiorenne- e maggiorata - ha il diritto di darla a chi vuole per raggiungere i suoi obiettivi. Ma sembra che ci s’interessi solo di quello che fa spettacolo…. Come se la nostra cronaca fosse sì un succedersi ininterrotto di scandali finanziari, di manovre politiche ed economiche sbagliate ma che, dopotutto, siamo rassicurati da questa cornice da farsa popolare, da satira imbecille che finge di tirar colpi al governo (quale che sia) ma, di fondo è preoccupata di tenere in piedi quel sistema lì dove il Gattopardo impera. Certo, anche al Nord, cari signori. Cambiamo tutto per non cambiare nulla.
Parliamo di cose serie.
Il Fortino di via Bianchi, quadrilatero di case popolari dove lo spaccio era degno del Bronx con tanto di sentinelle non è un caso isolato. Ci fu persino un’operazione di tipo militare della Polizia. Chi lo ricorda più?
Chi si chiede chi gestisce il traffico dei giovani prostituti rom vicino al cimitero di Musocco? Fatevi un giro intorno alla Stazione Centrale alle otto di sera.
Ci sono importanti posti di polizia nelle vicinanze ma questo non sembra impensierire nessuno.
Spavaldi: spacciatori, balordi, criminali e puttane di ogni razza o provenienza, costretti o disperati, vittime o carnefici, continuano i loro affari.
Nuovamente non è il mio scopo domandarmi perché o di chi siano certe responsabilità. Le forze dell’Ordine fanno il loro lavoro. Con i mezzi a loro disposizione. Probabilmente come in tutti gli ambienti ci sono errori. E magari abusi di uomini sottoposti a tensione, uomini che hanno sempre la pistola al fianco e questo è un peso enorme.
Se guardi l’abisso, l’abisso guarda te. È la vita.
Ma forse se si vedessero queste cose nei telefilm o nei libri la gente avrebbe anche più rispetto per “la Pula”, perché vedrebbe che il lavoro dei Carabinieri, dei Finanzieri o dei Poliziotti non è un reality show. È una strada che spesso richiede scelte difficili. Come succedeva nei famigerati poliziotteschi.
Ma ve lo immaginate oggi un canale televisivo privato o pubblico produrre e mandare in onda uno show come The Shield?
Però la versione americana viene trasmessa- a tarda ora- ma viene trasmessa.
Ma l’America è lontana….
Voglio solo dire che Milano è uno scenario per storie che non hanno nulla da invidiare a quelle che si comprano all’estero. Con buona pace di chi vede nel nero italiano solo una sorta di gioco psicologico, con atmosfere un po’ retrò e quegli immancabili clichè sugli italiani - uomini e donne - che ci propina la fiction e una certa letteratura. E con questo non voglio sputare sui mostri sacri. Un esempio. Scerbanenco scriveva dei suoi anni, ma certe cose, certi aspetti duri della criminalità li conosceva. Ricordate gli sfregi alle labbra imposti alle prostitute che volevano uscire dal giro di Venere privata. La rabbia di Duca Lamberti nel finale. Magari adesso sembra un classico per signori perbene, ma ai tempi raccontava cose scomode. Tanto che per essere rivalutato ci sono voluti anni.
Questo discorso lo fa uno che ha raccontato per inclinazione storie quasi tutte ambientate all’estero ma che ha una gran voglia di tornare nella sua città.
Forse uno che non l’ha mai lasciata.
Nel 1992 scrissi un Segretissimo intitolato Sopravvivere alla notte in cui una buona parte dell’azione era ambientata a Milano. C’era una sparatoria nei bagni pubblici di piazza Oberdan, un girone infernale sotterraneo che, poco tempo dopo, fu sostituito e bonificato. Per anni ci fu una sala giochi.
Adesso hanno chiuso anche quella, hanno ristrutturato un bel cinema d’essai dove i cultural possono vedersi i loro bei film d’autore, magari dopo essersi rimpinzati in un ristorante etnico nella via adiacente.
Be’, si guardino in giro. In quella stessa zona adesso convivono gruppi razziali diversissimi tra loro, africani, cinesi, mediorientali e slavi. Ci sono panchine alloggio per disperati, forse rifacendo il cavalcavia dei bastioni hanno cacciato i ”belli di notte” che Golinelli ritrasse nel romanzo “Basta che paghino”, ma una Milano oscura, potenziale scenario per storie dure esiste ancora.
Non è un bene o un male.
È così e basta. E certe cose succedono davvero. Anche se non vogliamo vederle.
Per cui in questo scenario che cambia ogni mese, ogni giorno, è interessante vedere i vecchi film poliziotteschi di Di Leo, di Lenzi, di Stelvio Massi. Con quegli eroi forse improbabili con la faccia di Luc Merenda, Mario Adorf e Claudio Cassinelli. E se le signorine- che per cortesia chiamiamo le pupe dei gangster - non hanno più i visi di Barbara Bouchet o di Lia Tanzi, poco importa. Nei viali, nei locali notturni si sentono altre parlate, accenti lontani, altre musiche ma, alla fine, il campo di fuoco non è cambiato.
E così rivedere i film che hanno tracciato la Milano criminale degli anni Settanta- così spaventosamente identica nei suoi risvolti sociali a quella di oggi- si può trovare spunto per rivivere qualche avventura senza doverla comprare in saldo all’estero.
O magari inventarsene una nuova, aggiornata ai tempi ma non immemore di ciò che è stato.
Con vigore.
Perché il clichè più assurdo è quello dell’Italietta che fa ridere, dove tutto s’aggiusta e i veri duri sono sempre da un’altra parte.
Ricordiamocelo, quando accendiamo la TV o apriamo un libro.
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